L’ascesa di TikTok sulla scia di Snapchat

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L’applicazione del momento, la più chiacchierata, è senza alcun dubbio TikTok.
Lanciata nel 2017 – anno nel quale acquisisce Musical.ly – la social-video-app made in China sta riscontrando un notevole successo soprattutto tra i giovanissimi. Ad oggi è presente in 150 Paesi, è tradotta in 75 lingue ed è diventata una delle piattaforme preferite per esprimersi creando e condividendo contenuti direttamente dal proprio smartphone (in Italia l’arrivo della app è datato novembre 2018). Lo strumento di editing è infatti davvero semplice e consente a chiunque, con immediatezza, di dare sfogo alla propria creatività (creatività stimolata dalle cosiddette challenge, sfide interattive che invitano la community ad esprimersi, ecco un esempio nostrano firmato Condé Nast).

L’ascesa di TikTok per molti versi ricorda quella di Snapchat. Benché, come più di qualcuno ha fatto notare, sia forse da considerare Vine il vero precursore di TikTok, molto probabilmente la social-video-app si appresta a diventare uno dei canali utilizzati dai candidati alle presidenziali USA per strizzare l’occhio all’elettorato più giovane, esattamente come fece dal 2015 Snapchat (anche se, è bene sottolinearlo, ad oggi gran parte del pubblico di riferimento di TikTok non è in età per il voto).
Non è un caso, quindi, che il Washingtong Post, una delle testate più propense alla sperimentazione, lo scorso maggio abbia lanciato il proprio profilo nella app per raccontare con stile personalissimo  la politica e, in generale, la quotidianità della redazione (la bio del profilo racconta già molto dell’approccio del giornale: newspapers are like ipads but on paper).

I follower, in pochi mesi, hanno già superato i 300mila facendo registrare otlre 15milioni di like.

A differenza del Discover di Snapchat, però, il lato informativo su TikTok è al momento davvero residuale. I contenuti sono pensati per intrattenere il giovane pubblico – con lo stile che richiama quello delle sitcom per teenager – più che per fornirgli le chiavi di lettura del mondo. Sono ideati per trasmettere l’autorevolezza del WaPo umanizzandolo, rendendolo meno austero – grazie alla musica che accompagna gran parte dei clip – e al contempo più trasparente, più che per strappare nell’immediato nuovi lettori.

In un’interessante intervista a Dave Jorgenson, a “capo” per il Washington Post del progetto TikTok ha raccontato come per lui (28enne) siano stati necessari 2 mesi di studio della piattaforma per capirne le peculiarità, il linguaggio, le aspettative degli utenti e l’uso che questi ne fanno.
Ha spiegato poi come in media siano necessarie quattro ore per produrre un contenuto destinato alla social-video-app, considerando anche i 30 minuti post pubblicazione dedicati dal team TikTok WaPo all’interazione con gli utenti mediante la risposta ai loro commenti.

Quali saranno gli sviluppi di TikTok difficile dirlo. La notizia della sperimentazione in Brasile di Reels, la risposta di Instagram ai video-mixati della app cinese è però misura del successo del “formato” TikTok ed ennesima conferma dell’interesse di Zuckerberg per le nuov(issim)e generazioni di utenti.

Video e live streaming: la frontiera è oltre la TV

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Quando nelle scorse settimane ho approfondito la questione dell’arrivo in Italia del paywall (pare proprio ufficiale: dal 27 gennaio su corriere.it), leggendo il piano presentato dai vertici di RCS MediaGroup ho appreso anche la notizia della chiusura di Gazzetta TV. Non sono mai stato uno spettatore del canale 59 del digitale terrestre, ma in quanto accaduto alla redazione guidata da Claudio Arrigoni ho ritrovato un’analogia con le ultime decisioni in merito a HuffPost Live, progetto di notizie in live streaming attorno al quale recentemente si è discusso in termini di ridimensionamento e ripensamento del progetto. Si tratta di due realtà molto diverse, sia dal punto di vista “anagrafico” – Gazzetta TV è nata nel febbraio 2015, HuffPost Live è stato lanciato nel 2012 – sia in merito a audience (mentre HuffPost Live ha contribuito non poco alla crescita dello spazio informativo di Arianna Huffington, Gazzetta TV è rimasta lontana dai 0,7% punti di share che erano stati indicati come traguardo per il 2015) ma i due progetti sembrano avere alcuni aspetti in comune.

In un periodo nel quale è il video il formato più in crescita, sembra quasi un controsenso che canali con approfondimenti in diretta raccolgano invece così pochi favori. Viene da chiedersi, insomma, come mai Facebook (con Live Mentions) e Twitter (con Periscope) abbiamo deciso di investire anche sul live streaming quando invece per le redazioni, le dirette sembrano risultare troppo esose rispetto ai ritorni generati.

La risposta credo si possa trovare nel memo scritto dalla direzione di Huffington Post per annunciare al team l’unione delle varie unità dedite alla realizzazione di contenuti video (HuffPost Live, HuffPost News, HuffPost Originals e HuffPost Rise) in un unico team. Il testo, dopo aver sottolineato l’importanza di HuffPost Live nel consolidamento della social experience della testata (32.000 ospiti di oltre 100 Paesi, 3 miliardi di visualizzazioni totali), pone l’accento – senza troppi giri di parole – sui cambiamenti intercorsi negli ultimi anni riguardo alle modalità di consumare e diffondere i video che hanno portato alla decisione di sostituire alle quotidiane 8 ore live, la realizzazione di video “singoli” più facilmente oggetto di condivisione da parte degli utenti. Ciò non certifica la fine delle dirette, che continueranno a seguire i principali avvenimenti politici e culturali, ma di certo evidenzia come il mondo dei video sia tanto in rapida ascesa quanto in veloce evoluzione.

Uno degli ultimi esempi di successo firmato HuffPost è il video 48 Things Women Hear in A Lifetime (That Men Just Don’t), un contributo di un minuto e mezzo, diffuso su Facebook, capace di raccogliere oltre 28 milioni di visualizzazioni e oltre 10 mila commenti. Questo dimostra come sia importante considerare anche le specificità della piattaforma per fare in modo che il contenuto possa ambire a diventare “virale”. Ecco perché la nota su HuffPost Live cita espressamente la necessità di creare video tailor-made per i vari strumenti: la comunicazione su Snapchat e YouTube, piuttosto che su Facebook e Twitter, è differente e, per rispondere a un diverso pubblico, non può risultare indifferenziata.

A ben vedere, i fattori critici non riguardano esclusivamente aspetti quali la “durata” o la ”compatibilità” rispetto a una determinata piattaforma. La questione probabilmente è più profonda ed è legata al linguaggio e, in generale, al format dei video delle dirette. Uno studio, ospiti più o meno noti a commentare quanto accade… forse è proprio il proporre online la grammatica dalla TV il principale ostacolo al successo di video che risultano interessanti ma non a tal punto da innescare meccanismi di passaparola e diffusione rapida e a macchia d’olio dei contributi.

La sfida, in altre parole, è quella di pensare al formato video online (anche) oltre e lontano dalla TV che conosciamo.

Se il Sun abbandona il paywall, News Corp rilancia il (social) video advertising

Img: brandingforum.org

Seguo sempre con interesse le vicende legate al britannico The Sun (e alla News Corp in generale). Vuoi perché fisicamente più vicino all’Italia rispetto ad altri autorevoli giornali d’Oltreoceano, vuoi perché appartiene a quel vulcanico australiano che risponde al nome di Rupert Murdoch, probabilmente l’antitesi del nativo digitale oggi tanto caro alle testate, ma di fatto a capo di uno dei maggiori gruppi “media” del mondo.
Il Sun è un quotidiano-tabloid che ha fatto del sensazionalismo e dello scandalo in prima pagina il suo marchio di fabbrica. Sarebbe ingiusto ridurre il giornale a queste due sole caratteristiche – la vena informativa è presente e in qualche modo bilancia le tematiche leggere e più vicine al gossip che all’informazione – ma è pur vero che, in virtù di tali caratteristiche, il Sun ha un notevole seguito, in particolare tra il pubblico giovane (nella fascia d’età 15-34 anni lo stile del giornale sembra far breccia più di altri).
La testata, tuttavia, non si è ancora dimostrata in grado di sfruttare al meglio il proprio bacino di utenza. La strategia digitale legata al paywall per incentivare i lettori a sottoscrivere un abbonamento, ad esempio, non ha fatto registrare i numeri auspicati (in poco più di un anno, 225.000 abbonati, un numero piuttosto basso per le ambizioni di un quotidiano con oltre un milione di lettori al giorno) e proprio per questo motivo, dallo scorso 30 novembre (curiosamente il Cyber Monday) è stata abbandonata. I vertici del giornale, forti delle conoscenze acquisite durante il periodo pay-for, hanno deciso di puntare in maniera più convinta sui social media e su innovative collaborazioni quali quelle con Storyful, Apple News e Facebook Instant Articles. Se appare chiaro come la testata, rendendo nuovamente gratuita la fruizione dei propri articoli, voglia tornare a fare crescere il proprio pubblico di lettori (se possibile erodendo il pubblico del Mail e del Guardian), non può passare in secondo piano l’acquisizione da parte del gruppo di riferimento del giornale di Unruly, società specializzata nel social video advertising (che ho avuto modo di conoscere direttamente) che di certo contribuirà all’individuazione di un nuovo modello di advertising che possa far crescere i guadagni pubblicitari di pari passo con l’auspicato aumento dei lettori.
Il mercato dell’online video advertising (ivi compreso il mobile video adv) è tra i comparti in maggior crescita per quel che concerne gli investimenti sul web. Il poter contare su una tecnologia in grado di offrire agli inserzionisti soluzioni d’avanguardia per funzionamento, analisi e tracciamento – senza contare le collaborazioni già in essere tra Unruly e rivali di News Corp quali i gruppi Hearts e USA Today – non potrà che supportare The Sun e News UK nel tentativo di aumentare le digital revenue. E, come suggerito da Robert Thomson chief executive di News Corp, nel saper vagliare meglio ciò che le persone leggono, guardano, vendono e comprano nell’attuale panorama digitale. Questo forse l’aspetto più interessante: l’acquisizione di Unruly potrà essere giudicata negli anni a venire un successo non solo in virtù delle maggiori opportunità offerte agli inserzionisti, ma anche in considerazione di ciò che le redazioni dei giornali del gruppo di Murdoch riusciranno a far proprio in termini di social data, ottimizzazione dei contenuti, analisi della propensione alla “viralità” di un video come di un articolo. In altre parole, la piena efficacia dell’acquisizione di Unruly, a mio parere, si concretizzerà quando la tecnologia sarà a supporto del quotidiano lavoro dei giornalisti e non solo appannaggio dell’ufficio commerciale deputato alla vendita degli spazi pubblicitari.

Verizon e AOL puntano su mobile e video adv. E i contenuti?

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Quando alcuni giorni fa si è diffusa la notizia circa l’annuncio da parte di Verizon – colosso statunitense della telefonia – di aver raggiunto l’accordo per l’acquisto di AOL (4,4 miliardi di dollari, 50 dollari ad azione), molti hanno sottolineato come l’operazione sancisse il successo dei “contenuti”. In effetti AOL, nel corso degli anni, ha saputo trasformarsi da provider e gestore di servizi (chi non ricorda C’e posta per te?) in una delle più rilevanti realtà statunitensi del comparto digital media con, nella propria faretra, frecce quali The Huffington Post, TechCrunch e Engadget.
L’impressione però è quella che Verizon non si appresti ad acquistare AOL per le redazioni – seppur di primo piano – quanto per ciò che tiene uniti i diversi spazi informativi, l’Ad Network. Seguendo una strategia differente da quella del “rivale storico” Yahoo – che ha puntato su tecnologie di contenuti quali Yahoo Answers e Tumblr – AOL ha focalizzato i propri sforzi economici nello sviluppo di una piattaforma pubblicitaria in grado di sfruttare, oltre agli spazi di proprietà, anche un network di altri siti (più di 450 publisher) attraverso i quali diffondere i messaggi pubblicitari dei propri inserzionisti.
Inoltre, con l’acquisto nell’estate 2013 di Adap.tv, AOL ha voluto nuovamente imprimere un cambio di velocità all’azienda. Facendo tesoro della propria esperienza nel campo del display advertising, infatti, AOL ha deciso di scommettere sul formato video, evoluzione interattiva e multimediale del banner.
In realtà AOL ha dimostrato un certo interesse per i video non solo sotto il profilo meramente pubblicitario quanto anche dei contenuti di intrattenimento: AOL Originals e Huffington Post Live rappresentano due degli esperimenti con il maggior seguito. Con il primo AOL si cimenta nella vera e propria produzione di contenuti video premium, con il secondo fa concorrenza online ai canali all news televisivi.
In fondo, è lo stesso Tim Armstrong, CEO di AOL che, informando i dipendenti della trattativa con Verizon, ha presentato l’azienda come una “media platform company” che, vinta la sfida del video, punta ora al successo nel mobile. Con percentuali sempre più in crescita di traffico in mobilità (Armstrong indica in 80% la percentuale della media consumption prevista per i prossimi anni), poter contare su un’infrastruttura come quella di Verizon potrebbe consentire a AOL di, diciamo così, chiudere il cerchio imponendosi sul mercato pubblicitario come punto di riferimento.
Non stupisce dunque che, proprio mentre nel quartier generale di New York si brindava alla vendita di AOL, tra i giornalisti dell’azienda iniziasse a serpeggiare qualche timore. Prima di tutto per l’indipendenza verso un colosso che su temi quali la net neutrality e la privacy online non si è dimostrato apertissimo al confronto. E, in secondo luogo, vista la difficoltà di rendere l’industria del giornalismo online scalabile e profittevole, la paura riguarda potenziali cambi nella strategia del neonato gruppo che potrebbero portare a un ridimensionamento proprio dei contenuti. Malgrado questi siano necessari ai video pubblicitari.

BuzzFeed e Dove: non laviamocene le mani

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Circa due mesi fa, in un mio post, analizzai le policy di BuzzFeed. Al di là di quanto stabilito dal vademecum per chi lavora o collabora con la redazione, ho apprezzato soprattutto la volontà di condividere con il proprio pubblico i punti salienti entro i quali si sviluppa il lavoro della testata. Una trasparenza che, a mio avviso, avrebbe potuto avvicinare i lettori rendendoli in qualche modo partecipi del modello editoriale. Tra i punti più rilevanti indicati da BuzzFeed c’è la volontà di non eliminare alcun contributo: nel caso in cui qualche informazione pubblicata non sia corretta o sia diventata obsoleta, l’articolo verrà aggiornato e corretto inserendo delle note a spiegazione delle modifiche effettuate.
Qualcosa però, nelle ultime settimane, non ha funzionato esattamente come previsto dalle policy. In particolare, ha suscitato il mio interesse il “caso Dove” che qui sintetizzo: Arabelle Sicardi scrive un articolo circa una delle ultime iniziative legate alla campagna pubblicitaria Dove. Il brand di Unilever ha infatti realizzato un video che riprende alcune donne che, nei pressi di una stazione, dovendo scegliere tra l’ingresso beautiful e quello average appositamente preparati da Dove, tendenzialmente scelgono il secondo. La finalità del progetto prosegue sulla falsa riga di quanto precedentemente realizzato dal brand che punta, attraverso pubblicità emozionali, a rendere maggiormente consapevoli le donne della loro bellezza (benché questa non segua i canoni dello showbiz). Il post, in realtà, risulta piuttosto duro nei confronti di Dove: viene criticata la scelta di semplificare eccessivamente la realtà suddividendola solo tra due parametri (o sei bella o sei nella media) e, soprattutto, viene imputato al brand di proporre sul mercato prodotti contro la cellulite o per una pelle più bianca con i quali “correggere” le imperfezioni alla faccia del messaggio #choosebeautiful.
Il punto però non è (solo) quello legato alla percezione dell’iniziativa Dove da parte delle consumatrici. L’aspetto interessante della vicenda è il fatto che BuzzFeed decide di cancellare l’articolo – in contrasto alle direttive che invitano gli editor a una scrittura che “presenti” piuttosto che “dica” sulla base di personali valutazioni – venendo meno alle policy che la testata stessa aveva deciso di condividere.
L’articolo è poi reso nuovamente disponibile online e Ben Smith, caporedattore di BuzzFeed, fa ammenda su Twitter pubblicando la lettera da lui inviata a tutto lo staff nella quale si scusa per l’esagerata reazione e sottolinea come l’iniziale scelta di eliminare gli articoli (una situazione analoga a quella del post su Dove pochi giorni prima era emersa con il gioco da tavolo Monopoli) non sia stata dettata dalle pressioni degli inserzionisti (come provocamente ipotizzato da The Gawker). Qualche dubbio infatti può legittimamente nascere. Perché, in fondo, una cifra importante del business di BuzzFeeed proviene dalla realizzazione/diffusione di contenuti sponsorizzati e Unilever, si sa, è tra i marchi che più investino in pubblicità. Secondo quanto comunicato dalla redazione, il marchio di Dove, Axe e molti prodotti, non investe su BuzzFeed dall’ottobre 2013 anche se gli articoli sponsorizzati, frutto della collaborazione tra il brand e la testata, sono ancora online. Al di là del caso specifico, mi chiedo: quanto il native advertising legato alle redazioni finisce con l’influire sullo spirito critico di una testata nei confronti degli inserzionisti?

ps: Arabelle Sicardi, dopo la cancellazione del post, ha rassegnato le dimissioni da BuzzFeed

Reuters TV: quando il broadcaster punta forte sul mobile

Img: reuters.tv

Dallo scorso 4 febbraio è disponibile su iTunes, Reuters TV, la nuova applicazione della famosa agenzia stampa britannica.
La sintesi della presentazione del servizio, onestamente, mi ha davvero colpito. Se l’obiettivo del team di sviluppo era quello di reinventate la tv e il modo di “consumare” le notizie, per quello che ho potuto vedere, le premesse sembrano esserci tutte.
Certo, è prematuro tirare dei bilanci ma Reuters TV sembra possedere le caratteristiche idonee per fare breccia nel vasto pubblico utilizzando al meglio l’enorme mole di contributi di qualità dei 2500 giornalisti sparsi in 200 differenti luoghi del pianeta (qualcosa come 100.000 video realizzati all’anno dalla testata).
La app è strutturata in due sezioni principali: Reuters Now e Feed.
Nella prima vengono proposte le notizie principali: facili di scorrere, presentano i filmati relativi ai fatti più rilevanti. Sulla parte alta dello schermo, in base alle esigenze di tempo,
l’utente può scegliere il grado di approfondimento della news indicando la lunghezza dei contenuti da visualizzare: le versioni dei contributi vanno dei 5 ai 30 minuti; l’applicazione consente in ogni momento di interrompere una video-notizia e passare alla successiva: l’operazione consentirà al sistema – in maniera analoga a quanto avviene, per esempio, con Flipboard – di “captare” gusti e interessi dell’utente personalizzando così il flusso informativo non solo sulla base della parametro legato alla geolocalizzazione ma andando incontro alle concrete esigenze dell’utilizzatore di Reuters TV.
Molto interessante anche l’opzione “Offline payback” che consente di programmare il download automatico delle notizie di modo da poterne poi fruire anche in assenza di segnale.

La sezione Feed, invece, è quella da scegliere per seguire gli avvenimenti live: senza alcun tipo di filtro o interruzione, l’utente avrà modo di seguire gli eventi più importanti in tempo reale. Non solo dirette video ma anche social integration: ai filmati, volendo, si possono affiancare i tweet più interessanti dei protagonisti di ciò che sta avvenendo o di chi sta commentando quanto accade.

L’utilizzo di Reuters TV è gratuito per i primi 30 giorni, poi richiede un abbonamento di 1,99 dollari al mese. Per quel che riguarda la pubblicità, le dichiarazioni in merito sono state piuttosto generiche: il comunicato stampa infatti parla di limited premium advertising senza però entrare nello specifico circa le modalità offerte agli inserzionisti.

Alcune testate, sintetizzando la notizia del lancio di Reuters TV, hanno paragonato il servizio a Netfix. Le parole di Isaac Showman, Managing Director di Reuters TV, presentando l’applicazione, in realtà hanno indicato Reuters TV non come il “Netfix delle news” ma come il modo di intendere le notizie nell’era di Netfix: personalizzate, continuamente aggiornate e on-demand.

La app è ottimizzata per iPhone, richiede iOS 8, ed è – anche in virtù delle valutazioni più che positive su iTunes – sicuramente da provare. Per informarsi ma, al contempo, anche per capire se possa rappresentare uno strumento sul quale puntare per rinnovare il mondo del broadcasting informativo.

Web Car, quando il giornale è in video streaming

Foto: la Stampa

In News(paper) Revolution ho cercato di riassumere i cambiamenti del mondo del giornalismo derivanti dallo sviluppo della comunicazione online. Ho volutamente deciso di circoscrivere il mio approfondimento, la “rivoluzione digitale” che ha modificato in profondità le diverse professionalità legate al mondo dell’informazione non può, infatti, essere ridotta all’elenco delle seppur notevoli ripercussioni legate alla Rete. Ne è testimonianza la nuova vettura in dotazione a la Stampa, un’auto a misura di report digitale. Perché, ormai – altro riflesso della digitalizzazione delle redazioni – distinguere tra carta e altri supporti diventa quasi superfluo. I contenuti di un quotidiano, non molto tempo fa disponibili solamente in versione cartacea, sono oggi fruibili anche attraverso computer, tablet, smartphone e net tv. Le notizie non si diffondono più solamente per via testuale, diventando ogni giorno sempre più variegate, più multimediali, composte non solo da lettere ma da immagini, video e infografiche. Il mondo dell’editoria, pur moltiplicando gli strumenti attraverso i quali raccontare le notizie, è quindi, paradossalmente, più omogeneo: anche i quotidiani comunicano tramite video (addirittura alcuni hanno canali all news non stop), le emittenti televisive non possono rinunciare all’informazione testuale dei propri siti web.
Non deve quindi sorprendere la Web Car de la Stampa, una vettura con la quale il giornale realizza “dirette in video-streaming ovunque sul territorio europeo e avere sempre a disposizione il wi-fi per reportage on-the-road, via satellite”.
Alla base una parabola auto-puntante – un’attrezzatura ridotta all’osso talmente piccola da essere trasportata anche all’interno di un bagaglio da viaggio – un router, un mixer e un pc con i quali gestire riprese, videoconferenze, montaggi video e… addirittura un drone comandabile dal mezzo.
Il battesimo di questo innovativo sistema di trasmissione delle informazioni sarà la mostra del Cinema di Venezia, una partenza soft per scoprire, senza troppi patemi, tutte le potenzialità della nuova risorsa a disposizione del Quarto Potere. Che solo proseguendo sulla strada dell’innovazione potrà costruirsi un futuro.

La continua crescita del formato video e l’effetto Vine

Vine vs. Instagram via Willa.me

Negli ultimi anni ho avuto modo di approfondire lo sviluppo e la crescita del video online (parte di ciò che ho appreso è poi stato raccontato nel libro Viral Video del quale sono co-autore). Nessuna sorpresa, quindi, nel constatare la crescita sempre maggiore del “mercato del video” anche al di fuori della pianificazione pubblicitaria che, sul formato più impattante rispetto al semplice banner, ha iniziato a concentrarsi già da alcuni anni (riproponendo però, nella fase iniziale, gli stessi contenuti televisivi senza alcun adattamento al web e alle peculiarità della Rete).

Quello che però mi ha sorpreso è, invece, il lasso di tempo nel quale gli utenti si stanno trasformando da semplici fruitori multimediali in veri e propri registri. Se poco più di un anno fa parlavo di Socialcam e Viddy, oggi invece mi trovo a raccontare dell’esplosione di Vine, strumento (per chi non ancora non lo conoscesse, permette di registrare e condividere video di 6 secondi) utilizzato anche nelle proteste di questi giorni dei giovani turchi e brasiliani (la rivolta verdeoro è detta “rivoluzione dell’aceto”, vinegar in inglese, termine che curiosamente contiente proprio la parola Vine) per rendere ancora più efficaci le loro rivendicazioni di una rinnovata equità sociale.

E così, mentre Vine ha da poco lanciato anche la versione per Android, Facebook, dopo aver lasciato trapelare l’obiettivo di far proprio l’utilizzo degli hashtag, pare possa controbattere ai filtri fotografici di Twitter permettendo agli utenti di Instagram di girare, editare e condividere video, superando così il concetto di pura applicazione fotografica (update: con la versione 4.0.0, Instagram ha esteso i filtri anche ai contenuti video di 15 secondi). Da appassionato di fotografia su/con Instagram, ragionando senza pensare troppo al “business”, la notizia al momento non mi esalta: troppo vivo il timore di una “deriva” che possa portare il servizio a diventare una (brutta?) copia di YouTube, con (odiati) spot che anticipano i contenuti degli utenti.

In ogni caso, tanta attenzione verso il formato video certifica lo sviluppo ad una multimedialità più evoluta. Il claim della prossima pubblicità dell’iPhone, dopo aver sottolineato che con lo smartphone della Mela si ascolta più musica e si scattano più foto che con ogni altra macchinetta, potrebbe quindi focalizzare l’attenzione proprio sul video.
In fondo, a ben pensarci, la condivisione è esplosa prima testualmente (blog), si è arricchita di immagini (dalle gif animate a Pinterest) e ora uno dei fronti caldi sembra proprio essere quello legato al video, per un superamento di YouTube e delle piattaforma di videosharing con spazi che esaltano forme di creatività ridotta (i 140 caratteri di Twitter in fondo corrispondono ai 6 secondi di Vine) più facilmente e velocemente fruibili e distribuibili sugli smartphone che portiamo sempre con noi. Una bella sfida per coloro che i occupano di comunicazione di marca: i 6 secondi diventeranno lo standard, la soglia massima di attenzione oltre la quale gli utenti passeranno ad un altro contenuto video? Per scoprirlo, forse, non bisognerà aspettare nemmeno molto.

Premio Best Viral Video PIVI ai Vegetable G

Due settimane fa ho avuto l’opportunità di calarmi in nei panni di un giudice, assecondando, a mio modo, il “lato oscuro” che mi porta ogni domenica sera a preferire XFactor (per noi senza parabola, in onda su Cielo) al posticipo del campionato di Serie A. In realtà, quello che dovevo valutare non era tanto l’aspetto musicale quanto le caratteristiche della ventina di videoclip arrivati in “finale”, misurandone per ognuno la propensione alla “viralità”. Per calarmi al meglio nella parte, ho ripreso tra le mani la bozza di un libro di prossima uscita (che mi vede tra i co-autori) che si focalizza, parlando di video online, anche su quelle che vengono denominate le “7 regole d’oro”, sette spunti derivanti dall’esperienza diretta nella gestione di campagne di social video advertising, stilate dal team di Ebuzzing. Non si tratta di “verità assolute”, il successo o meno di un contenuto (video come di qualsiasi altro formato) è il risultato di un’equazione a mille variabili, ma di una serie di caratteristiche comuni empiricamente individuate tentando di carpire le peculiarità comuni ad alcune iniziative diventate dei veri e propri tormentoni. Non voglio svelare troppo circa i contenuti del testo (altrimenti l’editore potrebbe arrabbiarsi non poco) ma, come è facilmente intuibile, sintetizzando, si tratta di riuscire ad “ingaggiare” l’utente portandolo a condividere il contenuto grazie, ad esempio, a un forte storytelling (già ne parlavo alcuni post fa) capace di emozionare.
Dopo un’ardua selezione (la difficoltà maggiore è stata quella di non lasciarsi influenzare dei propri gusti musicali che rischiavano di influenzare il giudizio) abbiamo decretato vincitore del primo premio “Best Viral Video Clip” – che sarà consegnato in occasione del PIVI (Premio Italiano Video Clip Indipendente) al MediMex – il video dei Vegetable G, La filastrocca dei nove pianeti [parte II], complimenti ai vincitori e in bocca al lupo per il loro progetto musicale!

[youtube http://www.youtube.com/watch?v=f1ZkDbjtSog&w=440&h=360]

Cosplay avanti tutta. Con Battle Royale di Playstation.

Chi non ha mai sognato di essere, almeno una volta, cosplayer per un giorno vestendo i panni del proprio supereroe preferito? Per l’uscita di Playstation All-Stars Battle Royale, la Sony Computer Entertainment ha organizzato COSPLAYstation, un concorso che regala a tutti l’opportunità di travestirsi e interpretare un personaggio di fantasia. Vista la vicinanza di Halloween potrei, quindi, finalmente mettermi in gioco. Non avendo il phisique du role del cattivo per antonomasia, guardandomi allo specchio, ho optato – scegliendo tra i tanti personaggi del videogioco – per Cole MacGrath.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=8ce3j0OBviw&w=440&h=360]
Anche se ora sono solito portare una folta chioma (?!?) chi ha avuto l’onore (o per meglio dire, il coraggio) di vedere la mia carta di identità sa che un tempo ero solito rasare la crapa a zero. Quindi bene o male sul taglio non ci dovrebbero essere grossi problemi, su jeans (con Union Jack stilizzata su una gamba) e scarpe nere nemmeno, una t-shirt slavata a due colori si trova, nemmeno la barba incolta è un limite invalicabile. Le questioni ancora in sospeso sono: gli elettrodi, i tattoo, la zainetto-arancione-una-spalla-con-cellulare-incorporato (trovato, costicchia un po’) ma soprattutto la capacità di manipolare l’elettricità. Per entrare meglio nella parte, ho inoltre deciso di approfondire le mie conoscenze sul personaggio (la mia personale versione del metodo Stanislavskij). Cole è un bike messenger, un lavoro del quale la madre si vergogna (con le amiche spaccia il figlio come insegnante), ma che lui svolge con dedizione. E’ appassionato di parkour e findazato con Trish Dailey, che il padre adora a tal punto da considerarla la figlia che non ha mai avuto. Un giorno, consegnando un pacchettino, Cole riceve una chiamata che gli chiede di aprire ciò che stava consegnando. Lui si rifiuta ma dopo aver ricevuto un’offerta di 500 dollari, apre il pacchetto, scoprendovi all’interno un ordigno la cui esplosione provoca migliaia di vittime. Cole ha la pellaccia dura e non solo sopravvive, ma mostra di aver in qualche modo fatto propria l’energia della deflagrazione (sto valutando una Halloween-edition di Cole con bruciature su tutto il corpo). I problemi però non vengono mai dai soli: nella città (in quarantena) ancora sconvolta, un uomo in tv fa il nome di Cole accusandolo di essere il terrorista causa di quanto accaduto, aizzandogli quindi contro praticamente chiunque. Cole oltre ad essere il protagonista della serie inFamous, è anche uno dei personaggi di Battle Royale, il nuovo crossover fighting video game (Street Fighter per intenderci) della Sony, tanti personaggi diversi che si fronteggiano a suon di colpi proibitivi su tante arene differenti. Sfide multigiocatore (sino a 4) e multicanale: il gioco è, infatti, Cross Play, amici con Playstation Vita e PS3 possono giocare la stessa partita contemporaneamente.

Ma torniamo al concorso per cosplay: una volta addobbati per benino, bisogna caricare il proprio videoclip (realizzato e interpretato) su YouTube, mandare una mail con il link, i propri dati (e il consenso all’utilizzo degli stessi) e sperare di essere tra i 7 migliori contributi scelti dalla giuria. Per i più temerari, in occasione del Lucca Comics, allo stand Playstation, ci sarà un operatore pronto a registrare le performance live dei cosplayer. In bocca al lupo e buon divertimento! …dolcetto o scherzetto?

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