The Sun: il sole splende sulla carta ma non su web

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Img: thesun.co.uk

Il Sun è il quotidiano-tabloid più venduto in Inghilterra. Tra gli addetti ai lavori c’è però chi è pronto a scommettere che questo suo primato sia quanto mai in bilico.
Se il ridimensionamento in termini di copie cartacee vendute è un male comune a quasi tutte le testate, il tasso di decrescita del Sun pare essere più elevato rispetto a quello dei giornali concorrenti. Secondo l’Audit Bureau of Circulations, infatti, il numero di copie al mese vendute dalla testata è passato dagli oltre 3 milioni di copie dell’agosto 2010 ai 1,8 milioni del febbraio 2015.
I problemi per il giornale del gruppo Murdoch, però, non sembrano essere esclusivamente quelli della stampa. Nel 2013 il Sun decise di adottare il paywall e, sulla base dei dati comunicati dalla stessa redazione, a dicembre dello scorso anno gli abbonatia Sun+ erano 225.000. Difficile giudicare tale cifra, ma in virtù del fatto che il più acerrimo concorrente della testata, il Daily Mail, continua a perseguire la strategia della gratuità dei contenuti in Rete (e forse proprio in virtù di tale scelta è il quotidiano online più letto al mondo), è lecito pensare che le ultime riunioni della direzione del giornale sull’approccio online della testata non siano state entusiastiche.
Anche perché l’appeal del Sun nei confronti degli inserzionisti è dato proprio dal vasto pubblico di lettori e se questo viene meno gli investimenti pubblicitari potrebbero essere dirottati altrove.
In questo contesto si inserisce la decisione del giornale – trapelata dal Guardian – che, a partire dal prossimo luglio, aumenterà il numero di articoli fruibili gratuitamente, fuori dall’orbita del paywall. L’obiettivo è quello di sfruttare le condivisioni degli articoli nei social network per attirare nuovi lettori con la speranza che possano trasformarsi in nuovi abbonati. Il progetto inizierà da “general news” e “sport”, due delle sezioni più gettonate dagli utenti. In particolare quest’ultima è strategica per il Sun che da tre anni paga milioni di sterline per garantirsi l’esclusiva dei videoclip con i goal della Premier Leauge, la “serie A” inglese.
Mike Darcey, CEO di News UK, in una nota allo staff, ha presentato l’iniziativa di apertura oltre il paywall come un (nuovo) inizio dell’evoluzione del Sun per continuare ad adattarsi alle esigenze di lettori e inserzionisti nel tentativo di identificare il modello distributivo più adatto.
Sarà sicuramente interessante valutare nei prossimi mesi l’impatto che l’esperimento avrà sul numero di lettori unici e su quello degli abbonati alla testata. Se sull’incremento del numero di utenti del giornale online non ci sono infatti molti dubbi, si apre però la sfida per individuare i pezzi con la più alta predisposizione alla condivisione in grado, contemporaneamente, di salvaguardare gli abbonamenti già sottoscritti.

L’informazione può prescindere da Facebook?

Img: dawn.com

Il rapporto tra il mondo dell’editoria e Facebook ha vissuto fasi alterne. Al grande entusiasmo delle principali testate per le applicazioni di Social Reading – adottate a partire dal 2009 per leggere, commentare, condividere gli articoli proprio attraverso il social network di Palo Alto – si è registrato un raffreddamento in virtù dei successivi cambiamenti nell’algoritmo della gestione del flusso di notizie (e dei conseguenti ridimensionamenti del traffico da Facebook) che hanno messo la parola fine a molti dei progetti di stretta collaborazione.

Dalla scorsa settimana, una notizia pubblicata dal New York Times, ha però riportato sotto i riflettori l’ambizione di Facebook di diventare il “miglior giornale personalizzato del mondo”. Pare infatti che il social network guidato da Zuckerberg, forte dei suoi 1,4 miliardi di utenti, abbia iniziato ad intavolare con una dozzina di media company (tre le quali BuzzFeed, National Geographic, il Guardian, l’Huffington Post, Quartz e lo stesso NYT) una serie di incontri per valutare la disponibilità delle testate a veicolare i contenuti direttamente nel social network piuttosto che utilizzare, come avviene ora, collegamenti esterni ai vari articoli.

L’obiettivo parrebbe quello di incrementare la soddisfazione del lettore in termini di user experience: superando l’ostacolo del rimando ai siti delle testate e, conseguentemente, il caricamento di nuove pagine, il rischio di spazientire l’utente, soprattutto se si tratta di un lettore che naviga su web da mobile, si ridimensionerebbe notevolmente. Ciò comporterebbe un aumento del tempo speso nel social network e, quindi, un incremento dell’esposizione ai messaggi pubblicitari veicolati attraverso Facebook.

Al di là delle modalità legate alla pubblicità all’interno dei contenuti delle testate – pare che Zuckerberg e soci vogliano proporre agli editori una sorta di affiliazione: spazi pubblicitari gestiti da Facebook inseriti negli articoli e suddivisione degli introiti in base alle performance – resta da capire se le testate accetteranno di scambiare la visibilità dei loro pezzi cedendo però a Facebook i (preziosi) dati circa i profili dei lettori e il loro comportamento nei confronti del materiale informativo.

Leo Mirani, in un interessante articolo pubblicato da Quarz, ha sottolineato come l’offerta di contenuti a “spazi terzi” (quali, ad esempio, YouTube e Snapchat) attraverso i quali diffondere gli articoli, non sia per le redazioni una novità. Proprio per questo motivo, a suo dire, non bisogna temere l’iniziativa di Facebook (che, tra l’altro, non prefigura il social network come canale giornalistico esclusivo). Perché non si può insistere nel pensare che siano i lettori a visitare i siti delle varie testate: chi produce contenuti deve essere presente nei luoghi dove gli utenti sono soliti raccogliersi.

E sotto questo punto di vista, nel bene e nel male, prescindere da Facebook oggi non sembra possibile.

Il native advertising sbarca anche su Flipboard

Img: vator.tv

Non sono un utilizzatore così assiduo di Flipboard ma quando trovo il tempo di usare il tablet, l’applicazione è una di quelle che non lesino ad interrogare per approfondire le notizie sulle tematiche che più mi interessano. Mi sono anche divertito a creare una mia rivista che funge da “contenitore” virtuale degli spunti su comunicazione, giornalismo e web che reputo più rilevanti.
Trovo molto piacevole la lettura di articoli con il look & feel del digital magazine che Flipboard consente a chiunque di sfogliare, non mi stupisce che autorevoli quotidiani come il New York Times, il Financial Times e, ultimo in ordine di tempo, il Wall Street Journal, abbiano deciso di intraprendere una collaborazione con l’applicazione (tra l’altro, il WSJ vende anche spazi pubblicitari su Flipboard testando nuovi modelli di advertising indirizzati in particolare a utenti che non sono soliti utilizzare sito e app del giornale per informarsi). Così come non mi è sembrato strano che “la rivista sociale e personalizzata” intraprendesse la strada già imboccata da altre redazioni digitali: quella dei Promoted Items. Infatti, dal prossimo primo febbraio i brand potranno mettere in evidenza i loro contenuti nel tentativo di raggiungere un pubblico più vasto e/o di suggerire agli utenti un’azione quale l’iscrizione a una newsletter, la visita a un sito o il follow di una particolare rivista.
I due brand che, come recita il comunicato stampa ufficiale, per primi testeranno i Promoted Items sono Levi’s e NARS Cosmetics. Il cosiddetto native advertising, quindi, si applica anche a quello che in definitiva è un aggregatore di notizie: contenuti “sponsorizzati” – in maniera del tutto analoga a ciò che accade, per esempio, su Twitter – entreranno a far parte del flusso di notizie di Flipboard in un continuum che non prevede una distinzione netta tra spazi informativi e spazi pubblicitari. Certo, avranno l’etichetta “promoted”, ma a tutti gli effetti saranno fruibili tra le altre notizie di un determinato canale tematico senza essere relegate, come ad esempio capita nei giornali su carta nostrani, nell’apposita rubrica dei redazionali.

Questa nuova opportunità segue quella dello scorso settembre con la quale Flipboard, per la prima volta, ha proposto ai propri lettori video ads a tutto schermo di 10 brand selezionati (da Gucci a Sony Pictures, da Chrysler a Jack Daniel’s).

Gli investimenti stanziati grossomodo un anno fa per acquistare l’allora competitor Zite devono in qualche modo essere ripianati. Nulla da eccepire, quindi, sul fatto che Flipboard stia tentando – anche in maniera piuttosto aggressiva – di monetizzare al meglio i circa 100 milioni di profili “attivati” dichiarati (espressione piuttosto fumosa che non coincide di certo con “attivi”).

Resta da capire quale sarà la reazione del pubblico a questa “invasione” di pubblicità in un terreno, quello dei contenuti organizzati dall’applicazione, sino a non molto tempo fa apprezzato proprio per la mancanza delle inserzioni tipiche della stampa.

Gli utenti rappresentano al contempo il patrimonio e l’opportunità di Flipboard. Sono probabilmente loro, più che gli inserzionisti, coloro sui quali l’attenzione non dovrebbe mai smettere di concentrarsi.

 

p.s. = ho aggiunto anche l’iconcina di Flipboard ai pulsanti di condivisione dei post del blog

Reported.ly: il giornalismo con e nei social media di Andy Carvin

Img: reported.ly

Nel 2012 Andy Carvin è balzato agli onori delle cronache per la sua capacità di raccontare, in tempo reale su Twitter, la cosiddetta Primavera Araba. Dal suo ufficio di Washington, Andy è riuscito a offrire ai propri follower (ma anche ai media di tutto il mondo) uno spaccato davvero interessante delle proteste che dalla fine del 2010 hanno animato le strade di Tunisia ed Egitto. Grazie a una rete verificata di contatti nei Paesi dei tumulti, Carvin è stato in grado di procedere ad un minuzioso controllo sulle fonti riuscendo ad individuare, analizzare e proporre al vasto pubblico i contributi più interessanti. Un racconto che, anche se realizzato a chilometri e chilometri di distanza dai luoghi delle vicende, ha rappresentato – con una media di 400 tweet al giorno – un ricco “reportage” con testimonianze dirette e multimediali in grado di offrire una sintesi autorevole delle sommosse che agitavano il mondo arabo.

Fatto tesoro di ciò che può essere definito come un processo giornalistico di content curation collaborativa, Carvin ha da alcuni giorni lanciato Reported.ly. Con una redazione di sei giornalisti, sparsi per il mondo ma sempre in contatto (del team fa anche parte l’italiana Marina Petrillo), mediante l’utilizzo di Twitter, Facebook, reddit e Storify, la nuova realtà si propone come la prima “redazione” focalizzata sul native journalism, un’informazione che nasce e si sviluppa nei social media, in grado cioè di sfruttare al meglio le caratteristiche degli strumenti dai quali scaturisce e nei quali si diffonde.
Un innovativo approccio che punta – come scrive Carvin stesso nel post di presentazione del neonato progetto – al superamento della copertura classica dei media: questa infatti si limita a considerare i social network strumenti utili per il rilancio delle notizie più che per il coinvolgimento del pubblico nel racconto di ciò che in un determinato momento sta avvenendo.

Il lavoro del team di Reported.ly non solo trae spunto dagli interventi degli utenti ma a questi, per certi versi, ritorna: non si tratta esclusivamente della ricerca di testimonianze dirette ma, ad esempio, anche della richiesta ai fruitori stessi delle notizie, del supporto per la traduzione di un messaggio in una lingua sconosciuta, per la verifica di una fonte o per la realizzazione di una mappa in grado di sintetizzare diversi accadimenti.

Un esempio concreto del lavoro di Reported.ly è (purtroppo) arrivato dalla cronaca di questi giorni: qui il link al racconto “assemblato” su Storify seguendo in tempo reale il blitz della polizia francesce a Dammartin.

Un esperimento, quello di Reported.ly, che se anche ora pare focalizzarsi esclusivamente nell’uso giornalisticamente sapiente dei social network più che nell’individuazione di un modello finanziario che renda l’attività di Carvin e colleghi sostenibile (in fondo dietro Reported.ly c’è First Look Media del fondatore di eBay Pierre Omidyar), resta da seguire con attenzione.

Web Marketing: questione di metodo, il mio nuovo ebook

E’ da ieri disponibile nelle librerie digitali Web Marketing: questione di metodo, il mio ebook pubblicato da 40k per la collana Bees.

Fugo subito ogni dubbio: non si tratta della “guida definitiva al successo in Rete”, non offre ricette per ammaliare gli utenti né è un manuale di kotleriana memoria che esamina a fondo i principi del marketing reinterpretandoli alla luce della complessità di web e social media.

Molto più semplicemente, l’ebook è una riflessione sulla mia esperienza nella promozione online, con pochissimo budget e molte idee. Mi verrebbe da dire una “riflessione a voce alta” perché poi, come già scritto, tutto è nato da un invito ricevuto in occasione di un evento di formazione che mi ha dato modo di riflettere sui punti salienti della strategia da me adottata. Prepando le slide ho in qualche modo tirato le fila della mia “campagna” online accorgendomi che, nel dare il titolo alle diverse fasi del processo seguito per il lancio su web del libro, ero riuscito – in maniera quasi inconsapevole – ad identificare un approccio alla promozione online. Non sono tanto le singole scelte ad essere interessanti, ma piuttosto le modalità con le quali ho affrontato la sfida di far conoscere a quante più persone possibili il mio saggio.
Le parole di sintesi, sistemate in ordine “di apparizione”, sono diventate un mesostico (una variante del più noto acrostico) che ha portato in primo piano la parola CAPIRE.

mesostico

La lista di parole tentava quindi di dirmi qualcosa, mi invitava a “capire”, a scoprire il nesso tra le diverse fasi.

Ci ho riflettuto un po’ e alla fine sono arrivato alla conclusione che ciò che credevo un approccio poteva essere assunto a metodo: un procedimento messo in opera in vista di uno scopo. Quello di promuovere “qualcosa” – un libro, un prodotto, un’iniziativa – su web.

Arrivato a questo risultato, forte dell’entusiasmo generato dal racconto della mia “storia” in alcune occasioni pubbliche, mi sono convinto che le conclusioni alle quali ero giunto dovevano essere condivise in maniera più diffusa. E così, di getto, ho iniziato a riversare su carta le mie osservazioni che, in versione riveduta e corretta, hanno portato all’ebook.

Buona lettura!

p.s.= ho già provveduto ad inserire l’ebook anche su aNobii e su Goodreads

Branded content e native advertising: differenze e punti di contatto

Nelle scorse settimane una giornalista che collabora con un mensile che si occupa di strategie di comunicazione mi ha contattato per chiedermi un commento sul native advertising. Tra le domande alle quali con piacere ho risposto, una mi è particolarmente dispiaciuto che non abbia trovato spazio nell’articolo sul rapporto tra editoria e pubblicità. Ho così deciso di riproporre i miei ragionamenti in un post. La questione sollevata dalla mia interlocutrice è stata molto semplice e diretta: qual è la differenza tra branded content e native advertising?

Il fenomeno dei contenuti brandizzati è esploso con la diffusione virale di video su YouTube creati dagli utenti. Non che prima non esistessero, ma è proprio grazie all’avvento dei social network che, in virtù della semplicità con la quale è possibile condividere un contributo, i numeri sono diventati rilevanti. Star Wars Kid, Numa Numa ed Evolution of Dance sono solo alcuni esempi di contenuti che registrano milioni di visualizzazioni frutto del passaparola spontaneo. Tali successi hanno inevitabilmente attirato l’attenzione dei brand che cominciano così a sperimentare realizzando video che puntano sulla diffusione “virale” nella Rete: contenuti con lo scopo di sorprendere più che di presentare un prodotto e le sue caratteristiche. Nascono così i Viral Branded Video che, giocando su originalità ed emozione, fanno leva sugli utenti (e sulle loro condivisioni ad amici, conoscenti e familiari) per diffondere i clip.
Uno degli esempi di branded content che ultimamente ha fatto più parlare di sé è il video First Kiss che con oltre 87 milioni di visualizzazioni ha colpito molti utenti (il video riprende 20 sconosciuti ai quali viene chiesto di baciarsi). Nei giorni successivi alla pubblicazione, quando il contenuto era già diventato un tormentone, si è scoperto come in realtà i protagonisti fossero attori e che si tratta dell’operazione pubblicitaria – davvero ben riuscita – di Wren, brand di moda di Los Angeles.

Il native advertising, invece, si rifà ai media tradizionali, mettendo in contatto la marca e le redazioni per creare contenuti che possano suscitare l’interesse degli utenti sfruttando l’autorevolezza della testata nella quale compaiono. E’ una forma di comunicazione che ancora deve trovare degli standard ben definiti ma che, in generale, si presenta sotto forma di contributi (articoli ma anche video o foto) sponsorizzati. Gli esperimenti in questo senso più interessanti a mio modo di vedere sono quelli che, un po’ come per alcuni dei viral branded video di maggior successo, alludono a un prodotto senza però limitarsi a mostrarne le peculiarità. Per cui, ad esempio, una delle prime “uscite” del native advertising è nata dalla collaborazione tra un noto brand di computer (Dell) con una famosa testata (New York Times) che ha pubblicato nel giornale un paid post sulle nuove generazioni e il loro modo di lavorare in mobilità.

Brand content e native adv fanno quindi riferimento a forme espressive differenti. Hanno tuttavia un punto in comune: il superamento dei classici format pubblicitari. Il fine ultimo di queste due modalità è infatti quello di entrare nel flusso comunicativo-informativo di solito precluso alla pubblicità. Le inserzioni, anche online, sono relegate entro precisi confini che gli utenti, nel corso degli anni, hanno ben imparato a conoscere (ed evitare?). Riuscire a trasformare in notizia qualcosa che richiami, direttamente o indirettamente, una marca o un prodotto, consentirebbe al messaggio di svincolarsi da banner e affini aumentandone così, almeno potenzialmente, l’efficacia.

News via Whatsapp, ci prova l’Oxford Mail

theguardian.com

Uno dei fronti più caldi degli ultimi anni è quello della cosiddetta “internet in mobilità”. Tra coloro che si occupano di comunicazione e advertising, il mobile rappresenta, almeno potenzialmente, una delle opportunità più ghiotte sulle quali scommettere. Smartphone e tablet sono sempre più diffusi, le connessioni proposte dagli operatori sempre più veloci, i costi mediamente accessibili, ormai per molte persone il web non è più unicamente sinonimo di personal computer. Ovviamente anche il mondo del giornalismo osserva con attenzione gli sviluppi del comparto, tentando di individuare le eventuali possibilità per adattarsi ai nuovi strumenti e sfruttarne appieno le caratteristiche.
Alle applicazioni delle varie testate sui circuiti Google Play, iTunes o sviluppate in maniera indipendente, gratuite o a pagamento, da alcune settimane si è affiancato un interessante esperimento del quotidiano locale Oxford Mail.
Dallo scorso 2 giugno è infatti attivo un servizio tramite il quale la testata inglese comunica con i propri lettori anche tramite WhatsApp, la app di messaggistica istantanea che, sfruttando la connessione alla Rete, consente di scambiare messaggi con i propri contatti senza dover pagare il costo degli SMS.
Il lettore interessato, aggiungendo alla propria rubrica il numero del giornale e indicando NEWS o SPORT (o entrambe le tematiche), riceverà le notizie della testata nel proprio telefonino. Al momento, per non risultare troppo invasivi, la comunicazione si limita a un messaggio di prima mattina contenente le 5/6 storie principali (titoli e link) e l’immagine della prima pagina, al quale seguono eventualmente, nel corso della giornata, le breaking news più rilevanti.
L’esperimento, nelle previsioni dei responsabili della testata, punta ad entrare in contatto più diretto con i lettori utilizzando uno strumento nel quale la concorrenza – a differenza di Twitter e Facebook – è al momento sicuramente meno agguerrita se non del tutto inesistente. Il superamento dei 250 contatti con i quali chattare contemporaneamente, invece, è un problema facilmente risolvibile creando un nuovo gruppo di utenti.

Nulla di nuovo, sistemi di alert che diffondono le notizie o ci informano di nuovi contenuti sono già molto utilizzati (dalle email agli RSS, dagli SMS alle notifiche).

Due però gli aspetti che mi hanno incuriosito: la comunicazione delle notizie via WhatsApp mira a raggiungere i lettori in un luogo (virtuale) nel quale sono soliti comunicare con amici e conoscenti. Le redazioni, quindi, seguono gli utenti in un terreno “incontaminato”, sarà interessante capire come i contenuti e le modalità comunicative si adatteranno a questo nuovo canale.
In secondo luogo, i responsabili del progetto dell’Oxford Mail, hanno tenuto a precisare che WhatsApp non rappresenta un’alternativa agli altri social media utilizzati dalla testata quanto uno strumento che si aggiunge a quelli già in uso e che dimostra la dinamicità del giornale nel far proprie le diverse possibilità tecnologiche offerte oggi agli utenti.

Un esperimento simile è stato messo in pratica dalla BBC News in India nel corso delle elezioni di aprile/maggio per le quali la redazione, oltre a WhatsApp, ha utilizzato anche WeChat allo scopo di raccogliere le opinioni degli elettori e di distribuire al contempo informazioni (video, grafici, interviste) sulla tornata elettorale.

I numeri sono ancora ridotti ma si intravedono buone potenzialità: se è vero che il numero dei messaggi al giorno per non essere considerato spam è da considerarsi nell’ordine delle poche unità, il tasso di interazione degli utenti con i link proposti risulta piuttosto elevato e quello di abbandono del servizio basso.

Il prossimo passo, già tracciato, sarà quello di utilizzare WhatsApp non solo per inviare le notizie ma per raccogliere con maggiore semplicità ed immediatezza le segnalazioni degli utenti rendendoli più partecipi del flusso informativo.

[update: il 9 gennaio 2015 anche la Repubblica ha lanciato un servizio di breaking news via WhatsApp]

Il ruolo di web e tv nella campagna elettorale 2014

Mentre gli echi della tornata elettorale della scorsa domenica paiono ancora lontani dall’esaurirsi, una volta diffusi i dati del voto, forse per deformazione professionale, mi é venuto spontaneo riflettere sul ruolo della Rete nella (brutta) campagna elettorale appena conclusasi.
Rispetto alle elezioni politiche del 2013 (l’appuntamento con i seggi più vicino in termini temporali), mi è parso che il ruolo del web sia rimasto “stabile” se non addirittura in discesa.
Con questo non voglio intendere che la Rete abbia avuto un ruolo marginale nel dibattito politico, ma parlando in termini di media, ad averla fatta da padrona mi è sembrata essere (nuovamente) la televisione.
E questo non solo perché anche il Movimento 5 Stelle, precedentemente molto lontano dalle dinamiche televisive, non è riuscito ad esimersi dai confronti tv, quanto perché al di là dei post di Grillo, dei tweet di Renzi e degli status su Facebook di Matteo Salvini (giusto per citare 3 protagonisti della scena politica italiana), il consenso mi sembra essersi costruito soprattutto sul vecchio “tubo catodico”.
In altre parole, benché cresca – tra politici e non – l’uso del web e la dieta informativa di ognuno di noi sia ormai formata da una molteplicità di stimoli provenienti da strumenti e fonti differenti, la tv continua ad essere nel nostro Paese il medium per eccellenza.

Nell’analisi del rapporto web-tv mi è stato di supporto un interessante libro di Lella Mazzoli dal titolo Cross-news. L’informazione dai talk show ai social media. Un testo che, sulla base delle interviste ad alcuni dei più autorevoli professionisti della tv, tenta di tracciare i cambiamenti in atto nel mondo televisivo sulla scia delle nuove modalità di fruizione delle informazioni che il web consente. La scelta dello studio, nello specifico, dei talk show non è stata per nulla casuale: sono proprio questi programmi quelli che (probabilmente assieme ai talent) più tentano di far proprie le dinamiche della comunicazione interattiva online rimettendosi in gioco, almeno parzialmente, per superare il dogma dello spettatore passivo che per anni ha caratterizzato l’informazione televisiva.

Img: codiceedizioni.it

Non si tratta di un vero e proprio cambiamento di paradigma, quanto piuttosto di un’ibridazione di tecnologie che rende il panorama più frastagliato. Basti pensare, per esempio, al fenomeno del cosiddetto second screen per il quale gli spettatori non concentrano più le proprie attenzioni verso un solo schermo ma, pressoché in tempo reale, commentano ciò che vedono/sentono attraverso i social network. Un nuovo pubblico che se forse non rappresenta ancora la maggioranza di chi guarda la tv, sta sicuramente contribuendo a riscrivere le regole che sottendono ai palinsesti televisivi.

In questo senso, i talk show, una delle principali forme di approfondimento e formazione dell’opinione pubblica, non poteva certo esimersi dal testare nuove forme di creazione dei contenuti, di conduzione dei dibattiti, di partecipazione del pubblico.

In realtà, senza poi svelare troppo circa le conclusioni alle quali arriva il libro, sebbene il processo di rinnovamento sia inevitabilmente partito, la Rete (e quindi gli utenti online) non è ancora riuscita ad entrare nel vivo dei programmi. L’interazione, ad esempio, per molte trasmissioni non è tanto tra la redazione e gli utenti, quanto tra spettatori e spettatori il cui confronto anima il dibattito solo online.

Da questo punto di vista, mi pare emblematico il caso del profilo @RaiBallaro che pur potendo contare su oltre 134.000 follower e oltre 5.200 tweet, non “segue” nessuno e non interagisce con gli altri utenti.
Nulla di sbagliato, per carità, legittima scelta. Solo, mi pare, un utilizzo riduttivo – una sorta di mera cassa di risonanza – di uno strumento che ha profondamente cambiato il panorama informativo.

Due gradi e mezzo si separazione di Domitilla Ferrari [recensione]

Due Gradi e Mezzo di SeparazioneHo la fortuna di conoscere personalmente Domitilla (e Maurizio) al decimo incontro della GGD Milano, nell’ormai lontano dicembre 2009. Mi è da subito sembrata una persona interessante, con la quale confrontarsi in maniera divertente e costruttiva. Per paradossale che possa sembrare il nostro “fare rete” è quindi iniziato offline per poi trasferirsi online. Su web ci siamo sentiti per lavoro, per scambiarci dei pareri (ricordo ancora con piacere di aver potuto dire la mia sul suo progetto a favore di UNHCR), per leggerci su blog e social network. Ogni tanto ci siamo anche rivisti vis à vis a qualche evento (istituzionale o pensato ad hoc per il lancio di una qualche iniziativa) ma, al di là, del numero di messaggi scambiati o del lasso temporale tra una comunicazione e l’altra, ho sempre sperato di poter contare sulla sua professionalità, sulla sua curiosità, sulla sua capacità di mettere in contatto le persone.

Ecco spiegato perché all’uscita di Due gradi e mezzo di separazione – Come il networking facilita la circolazione delle idee (e fa girare l’economia), facendo parte del suo fan club (espressione questa che nel testo di tanto in tanto compare), ero molto curioso. Curioso di capire l’approccio usato, lo stile, la scelta degli argomenti trattati.
Forse anche per questo motivo, ho finito il libro in meno di 24 ore. Perché è semplice, scorrevole, interessante, dai capitoli brevi corredati dalla giusta sintesi che arriva al nocciolo della situazione evitando inutili orpelli.
E sì, lo ammetto, mi ha spiazzato. Non avevo un’idea precisa di che cosa avrei letto. Dal titolo e dal booktrailer qualcosa avevo intuito, ma sinceramente immaginavo fosse più “manuale” di quanto in realtà Due gradi e mezzo di separazione alla fine sia. Perché se è vero che non mancano le parti un po’ più tecniche legate a microinterviste o approfondimenti, in realtà il libro è più una guida al networking come stile di vita che un saggio sui social media. E’ un invito alla condivisione dei saperi, a conoscere nuove persone di ambiti diversi dai propri, a curare i rapporti con i nodi della propria rete, all’utilizzo sincero e consapevole degli strumenti che il web ci permette di usare.
Il libro possiede almeno un altro grande pregio: sottolinea più volte come l’online non sia in antitesi all’offline, indicando i social media, se usati con criterio per quello che sono, come strumenti in grado di avvicinare le persone piuttosto che isolarle.

Il paradigma della rete – inteso in maniera astratta come nodi che tra loro danno luogo a una fitta rete di connessioni – implica un cambiamento di prospettiva che finisce (almeno potenzialmente) per influire anche sulla nostra quotidianità. Domitilla ci invita ad affrontare la sfida vivendo in maniera più consapevole il rapporto con le nuove tecnologie che hanno reso il mondo ancora più “piccolo”. E di questo non possiamo che ringraziarla.

p.s.= il prossimo giovedì 27 febbraio dalle ore 18, presso la libreria ibs di Padova, avrò il piacere e l’onore di conversare con Domitilla su Due gradi e mezzo di separazione. Se volete suggerirmi qualche domanda, commentate liberamente (o segnalatemi, citandomi, una domanda su Twitter utilizzando l’hashtag del libro #duegradiemezzo). Potrebbe essere un modo intelligente per ridurre i gradi di separazione tra voi e l’autrice.

[recensione] Twitter senza segreti di Luca Conti

Twitter senza segretiSono un fan di Twitter, strumento che ho iniziato ad utilizzare nell’ottobre 2008 (per conoscere a quando risale il tuo primo tweet, visita Twopcharts e inserisci il tuo nickname) e che da allora rappresenta per me una sorta di rassegna stampa mattutina in virtù della quale inizio la giornata scorrendo le notizie sui temi che più interessano. E’ in assoluto l’applicazione che utilizzo con maggiore frequenza, uno strumento ormai irrinunciabili per trovare spunti sui temi che mi appassionano, per condividere mie considerazioni, per commentare le mie esperienze (anche con altri media).
Di Twitter mi hanno subito colpito la semplicità, la velocità e la sintesi cui obbligava. Ho però rapidamente capito che dietro l’immediatezza di un tweet si nascondeva una rivoluzione in grado di cambiare (per sempre?) i connotati del mondo della comunicazione e di quello dell’informazione. Nel corso degli anni ho imparato così a distinguere le peculiarità di Twitter rispetto agli altri social media diventando un utente più smaliziato via via che lo stesso strumento si evolveva. Uno dei momenti topici, l’ho personalmente raggiunto nel maggio 2012 (se la memoria non mi inganna), quando appena avvertita una forte scossa di terremoto, la prima cosa che feci, istintivamente, fu quella di prendere lo smartphone e scrivere un tweet su ciò cui ero stato testimone salvo poi passare in rassegna i cinguettii delle persone che conoscevo per capire se anche loro avessero avvertito qualcosa.

Nonostante sul fronte degli investimenti pubblicitari non abbia ancora avuto modo di utilizzare Twitter (aspetto con molta curiosità l’opportunità di provare in prima persona le soluzioni advertising), non ho esitato un attimo ad associare anche al mio News(paper) Revolution un hashtag – #nepare – per stimolare/monitorare la conversazioni attorno al saggio e agli argomenti trattati.

Per restare in tema di libri, ho da pochi giorni terminato la lettura di Twitter Senza Segreti di Luca Conti, un testo pubblicato dalla casa editrice Hoepli molto interessante che mi sento di consigliare a tutti, sia a coloro che per ora si limitano ad osservare dall’esterno lo strumento, sia a coloro che invece lo utilizzano da tempo.
Le informazioni fornite sono davvero molte e consentono di scoprire passo passo l’unicità di Twitter, i suoi aspetti tecnici e i principi fondanti, le opportunità per chi voglia ascoltare, comunicare o promuovere, con tanti esempi concreti, profili da seguire, interviste e link attraverso i quali proseguire l’approfondimento. Un libro che in qualche modo rispecchia ciò su cui si focalizza: semplice, si legge senza annoiarsi e offre spunti molto interessanti per comprendere al meglio come Twitter nel giro di pochi anni sia diventata “l’agenzia stampa globale personalizzata” usata da politici, attori, responsabili di azienda, sportivi e giornalisti.

Uno dei punti sui quali l’autore insiste spesso che mi piace sottolineare è l’aspetto legato alla consapevolezza di come Twitter sia un social network di microblogging improntato alla partecipazione, alla conversazione, alla relazione. Utilizzarlo solo come l’ennesimo canale attraverso il quale diffondere il proprio messaggio significa probabilmente non aver appieno compreso le potenzialità dei messaggi in 140 caratteri.

La sfida è quella di individuare/proporre una modalità comunicativa (anche pubblicitaria) che possa essere percepita come “servizio” dagli utenti, come qualcosa di interessante, di costruttivo, di originale capace di indurre all’azione chi ne fruisce, risposta o condivisione che sia.

Forse mi sarei aspettato qualche parolina anche su Vine, mobile app di casa Twitter, questo l’unico appunto – ma proprio a cercare l’ago nel pagliaio – che mi sentirei di fare all’autore, al quale però ribadisco i miei complimenti per un libro davvero ben pensato e scritto.

Si fa cultura digitale anche raccontando con chiarezza e semplicità i nuovi strumenti digitali. E Luca Conti, in questo, è uno dei più bravi.