Promuovere gli ebook, il mio intervento su #nepare

Nella giornata di ieri ho avuto l’onore di partecipare, in qualità di relatore, al primo corso dedicato agli editori digitali promosso da Simplicissimus Book Farm. Un intervento, a chiusura della giornata di formazione dedicata agli ebook, che mi ha dato modo di raccontare alcune delle iniziative da me attivate nella Rete a supporto di News(paper) Revolution.

Una semplice carrellata di suggerimenti (non volevo certo infierire dopo ore e ore di attenzione massima) che mi sono sentito di condividere nella mia duplice veste di autore e di “stratega” della promozione online del libro. Immagino non sia una situazione usuale, ma in virtù della mia esperienza con web e social media, l’editore (Fausto Lupetti che ringrazio per avermi messo in contatto con gli organizzatori del corso), al momento del lancio del saggio, mi ha lasciato carta bianca offrendomi massima libertà di azione.

Quando gli investimenti pubblicitari sono di tasca propria e si utilizzano per “spingere” il frutto del proprio lavoro, di ore passate davanti alla schermo di un computer, la responsabilità insita nella sfida di utilizzare al meglio le poche risorse disponibili è ancora più sentita.

La promozione del libro continua (il prossimo 19 novembre presenterò il testo su Second Life) ma, dopo alcuni mesi dall’uscita, era forse tempo di stilare un primo bilancio. La presentazione, in questo senso, è stata una buona occasione per vagliare aspettative, difficoltà incontrare, miglioramenti apportati in corsa e nuove nozioni apprese.

Non si tratta di soluzioni tecniche che garantiscono il successo, ma di 6 semplici step che rappresentano l’approccio al web che mi sento di consigliare.

Ringraziando ancora una volta chi mi ha dato modo di parlare della mia esperienza (e, di riflesso, del mio libro), resto a disposizione per eventuali curiosità o suggerimenti.

[update: l’intervento di cui sopra è diventato un ebook, Web Marketing: questione di metodo]

PaperPay, l’app per comprare i giornali cartacei dal telefonino

PaperPay

Concentrato sull’aggiornamento del mio libro – file consegnato all’editore, speriamo a fine mese possa uscire la versione ebook di News(paper) Revolution – ultimamente mi sono focalizzato maggiormente sull’innovazione del web e dei suoi nuovi strumenti per comunicare.
In realtà, nonostante ormai quasi tutte le testate abbiano puntato i loro sforzi sui device digitali, anche la tradizionale “carta”, seppur generalmente in maniera confusa e senza molta convinzione, cerca (affannosamente) di stare al passo con i tempi sposando progetti che, se non fermano il declino, quantomeno cercano di proporre nuovi percorsi da intraprendere.
E’ il caso di PaperPay, l’applicazione per sistemi Android e iOS, lanciata a fine marzo in Inghilterra da Trinity Mirror, la società editrice, tra gli altri, del Daily Mirror e del Sunday Mirror. Di cosa si tratta? Semplice. E’ un applicativo che, scaricato su smartphone, previa registrazione e sottoscrizione di una delle tipologie di abbonamento previste (settimanale, mensile o annuale, con diverse forme di sconto e possibilità di pagare con carta di credito, PayPal o SMS), consente di ottenere un codice a barre personale. Mostrando il quale, recandosi da uno dei 47.000 giornalai aderenti all’iniziativa, poter ritirare la copia cartacea del quotidiano, senza più preoccuparsi di avere spiccioli a sufficienza o di aver dimenticato a casa il portafogli. Ai primi utilizzatori dell’app venivano, inoltre, offerte 5 copie gratis del Daily Mirror e la possibilità di partecipare all’estrazione settimanale di un premio di 100 sterline.
Stando alle parole di Matt Colebourne, direttore del reparto new business del Trinity Mirror, l’applicazione potrebbe aiutare a comprendere il numero esatto di copie cartacee che i lettori desiderano. In un mercato come quello della stampa tradizionale sempre più attento alla voce dei costi (e, quindi, le perdite) – uno degli strateggi più utilizzati, in questo senso è la riduzione della foliazione – sapere quante copie stampare, evitando gli sprechi, potrebbe essere una delle soluzioni valide. Il futuro della carta sarà il print-on-demand?

Native advertising e brand journalism: quando il giornalismo online incontra la pubblicità

Da alcune settimane sono immerso nell’aggiornamento di News(paper) Revolution che, a grande richiesta, uscirà a breve anche in versione ebook (UPDATE: la versione digitale, ampliata e aggiornata, è uscita alla fine del mese di maggio).

Uno degli approfondimenti al quale ho deciso di dare spazio nella nuova edizione del mio libro, è quello relativo al cosiddetto native advertising. Ecco, di seguito, un estratto della parte dedicata alla forma di pubblicità che gli editori stanno iniziando a testare.

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Uno dei nuovi formati pubblicitari online che gli editori stanno iniziando ad adottare è il cosiddetto native advertising.

L’idea di base è semplice: in ultima analisi, anche l’advertising può rappresentare una notizia; se non riesce ad esserlo, allora probabilmente il contenuto pubblicitario non ha poi così tanta rilevanza.

Degli esempi di formati legati al native adv sono le Sponsored Story di Facebook e i Promoted Tweet di Twitter: contenuti brandizzati integrati direttamente nell’esperienza dei social media piuttosto che posizionati nei classici spazi riservati alla pubblicità online.

In qualche modo, quindi, il native advertising è una rivisitazione “in salsa web/social” dei redazionali (advertorial) presenti nei quotidiani stampati. Con il native adv i lettori possono fruire di contenuti sponsorizzati interattivi che puntano alla condivisione, operazione questa che la pubblicità tabellare di solito non consente. E’ un modo di comunicare con un linguaggio che, sfruttando appieno le peculiarità della Rete, la creatività e lo storytelling, può essere recepito in maniera costruttiva dagli utenti e superare la “cecità” dei lettori verso alcuni dei formati attualmente in uso online.

Quasi tutte le campagne di native advertising nascono dalla collaborazione diretta tra editori e brand, senza l’intermediazione delle agenzie. Sono proprio le testate, infatti, a conoscere meglio di chiunque altro gli standard da adottare, il profilo dei propri lettori e i “segreti” per fare in modo che questi contribuiscano a diffondere ad amici e colleghi i contenuti informativi.

Uno dei primi esperimenti di native advertising è stato realizzato dal magazine statunitense The Atlantic con un post sponsorizzato su Scientology pubblicato il 14 gennaio 2013. Probabilmente anche a causa dell’oggetto dell’articolo, l’iniziativa scatenò un acceso dibattito online, non sempre così benevolo nei confronti della testata (che, alcuni giorni dopo, ammise di aver commesso qualche errore di valutazione nella ricerca dell’innovazione del digital advertising).

Altro spazio informativo che ha deciso di puntare sul native adv, è BuzzFeed la cui testata propone una collaborazione con i brand alfine di realizzare contenuti pubblicitari in grado di catturare l’attenzione dei lettori (Jonah Peretti, CEO di BuzzFeed, definisce il native advertising come “(sort of) social advertising”).

Forbes ha, invece, introdotto BrandVoice, il servizio – nato dalla start-up newyorkese True/Slant – che consente di condividere tra editori e inserzionisti gli strumenti per creare engagement, per monitorarlo in tempo reale e per, al contempo, offrire il miglior servizio informativo ai lettori. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di fornire contributi pubblicitari non intrusivi quanto, piuttosto, esperienzialmente accattivanti. Il magazine ha dato vita a una “Brand Newsroom” con la quale i marketer possono collaborare per far conoscere in maniera più efficace il loro business.

Un servizio analogo è quello del Washington Post che, con BrandConnect, permette alle aziende di pubblicare, nel sito del quotidiano, propri contenuti quali video, post e infografiche.

Il primo esempio di “sponsor generated content” del giornale è stato realizzato dalla CTIA, l’associazione internazionale no profit che rappresenta l’industria delle comunicazioni wireless che racconta come la tecnologia mobile abbia rivitalizzato le comunità rurali (il post era circondato dalla pubblicità display dell’associazione, conteneva un video e non consentiva di essere commentato).

Interessante notare, ancora una volta, la posizione di Google News che chiede agli editori di separare con molta chiarezza i contenuti giornalistici da quelli pubblicitari, pena l’esclusione della fonte dall’aggregatore di notizie. Il servizio dell’azienda di Mount View non si propone come uno strumento di promozione e, quindi, vuole salvaguardare la propria inclinazione meramente informativa.

(UPDATE: anche il New York Times, nel redesign del sito, online dall’8 gennaio 2013, ha iniziato a testare il native advertising, ne parlo qui)

Invertising, dall’idea all’ideale

Nutro un notevole interesse per la comunicazione e i suoi sviluppi. Se per passione negli ultimi anni ho approfondito l’aspetto informativo legato in particolare ai nuovi media, è anche vero che l’ambito lavorativo mi ha quotidianamente portato a contatto con il mondo della pubblicità. Ecco spiegato perchè, avuto tra le mani Invertising di Paolo Iabichino, mi sia subito immerso nella lettura del libro. Testo che mi ha davvero entusiasmato, uno di quei libri costruttivi che non puoi esimerti dal consigliare ad amici e colleghi. Di cosa parla? In estrema sintesi (e senza rivelare troppo), di cambiamento, di inversione di marcia. Il fulcro dell’approfondimento che il testo propone è, infatti, quello che sia oggi necessario un nuovo approccio per brand e agenzie che porti ad una apertura, a un cambiamento di prospettiva, a un dialogo in grado di “avvvicinare le persone alle marche su territori valoriali condivisi”. Molte le similitudini che leggendo ho indivuato tra la pubblicità e il giornalismo, sfere entrambe spesso superficialmente tacciate di rappresentare realtà negative da superare. E invece, probabilmente, come suggerito dal saggio, si tratta di individuare modalità che possano ridare dignità e nuove dimensioni ad ambiti ancora validi e che esistono (e hanno senso) a prescindere dai mezzi attraverso i quali prendono forma. A patto che tralascino l’autorefenzialità, l’ossessione del target e delle mere vendite, e che focalizzino i loro sforzi nello stimolare la partecipazione, obiettivo vero di chi comunica. Un libro ricco di spunti interessanti, di esempi (spesso vissuti in prima persona), di rielaborazioni di concetti di altri autori che si concretizzano nello sviluppo della tesi che sottende il cambiamento di marcia che la pubblicità è chiamata a seguire. Complimenti a Paolo Iabichino per un libro che, nonostante la prima edizione risalga al dicembre 2009 (il testo in realtà ha trovato “nuova vita” su Wired), risulta ancora oggi di estrema attualità, da non perdere!

p.s.=il libro dispone anche della formula “soddisfatti o rimborsati” ma credo sia improbabile che qualcuno terminato il testo si appelli all’editore per riavere quanto speso

99 franchi e un’effimera felicità

Arrivo in stazione con largo anticipo rispetto all’orario di partenza. E senza nulla da leggere. Così, ricontrollato l’orologio, decido di rifugiarmi dal freddo e dalla noia in libreria. All’ingresso campeggiano un bel po’ di libri scontati del 25%. Sono quasi certo di non trovare nulla di accattivante – non al primo sguardo almeno – ma in realtà un testo dalla copertina verde riesce ad incuriosirmi. Prendo in mano il libro, evito accuratamente la quarta di copertina e, come si fa con i prestigiatori, pesco una pagina a caso, la numero 16. Senza pensarci troppo leggo:

Tutto è provvisorio e tutto si compra. L’uomo è un prodotto come gli altri, con una data di scadenza. Ecco perché ho deciso di andare in pensione a 33 anni. Pare sia l’età migliore per resuscitare.

Gulp, rileggo perché non mi sembra vero. E, invece, non è un sogno (o un incubo): ho 33 anni, sono nel pieno di una crisi di mezza età (beh, forse un po’ meno di mezza…) e ho appena letto le pagine di un libro verde che sembra descrivere perfettamente quello che provo. Il caso ha deciso per me, non posso esimermi dall’acquisto. Salgo sul treno e, curioso più che mai, inizio a leggere il romanzo che mi ritrovo tra le mani. Parla di Octave, un pubblicitario che tenta, scrivendo un libro sulla sua vita e il suo lavoro, di sfuggire al mondo fatto di bugie, eccessi e bisogni inutili al quale egli stesso contribuisce. Un urlo disperato di una persona famosa ma sola, ricca ma priva di ciò che conta veramente, di successo nel lavoro quanto scarsa per quel che concerne la sfera privata. Un’analisi spietata sul mondo della pubblicità, sui suoi eccessi, sulle sue stravaganze, sui suoi rituali, sui suoi controsensi, su un crescendo di avvenimenti che alla fine lasciano un retrogusto amaro in bocca e tanti interrogativi senza risposta. Frédéric Beigbeder, l’autore del libro, ha veramente lavorato in un’agenzia pubblicitaria (Young & Rubicam) ed è stato realmente licenziato dopo la pubblicazione del libro e lo scalpore seguito al suo successo: quanto di vero c’è nell’universo che descrive? Una lettura spassosa, una riflessione lucida sui nostri tempi (anche se il libro è datato 2000) assolutamente consigliata. Un unico appunto alla casa editrice (Universale Economica Feltrinelli): era proprio necessario tradurre il titolo originale 99 Francs con Lire 26.900, cifra che mi pare non avere né appeal né senso (lo stesso ragionamento vale per i 13,89 euro della copertina)?

p.s.= il romanzo, nel 2007, è diventato anche un film

Quando anche il marketing diventa “likeable”

likeable_coverLeggo sempre con molto piacere i testi statunitensi sul web marketing, riescono (spesso) a spiegare con semplicità le potenzialità della Rete basandosi su esperienze dirette e dati oggettivi. Così, quando Luca Conti ha proposto ai suoi follower di Instagram di scegliere un testo, non ho avuto dubbi e ho puntato su un saggio in lingua inglese, Likeable Social Media di Dave Kerpen, libro del 2011 che si focalizza sul passaparola attraverso il cosiddetto social web. Una delle caratteristiche che mi ha fatto apprezzare sin da subito il testo è legata alle esperienze delle quali il libro si serve per trattare i diversi argomenti: non riguardano solo aspetti, diciamo così, lavorativi (in altri testi legate, alle volte, a campagne quasi inarrivabili per investimenti o materiali), ma fa riferimento ad avvenimenti quotidiani con i quali immedesimarsi, da consumatori, con estrema facilità.

Sin dall’introduzione è poi chiaro il focus del libro: ciò che caratterizza il tempo attuale è che oggi i consumatori, felici o meno, possono comunicare le loro opinioni su prodotti, servizi, iniziative e brand con semplicità a un numero consistente di persone: un semplice “like” può creare endorsement, un tweet negativo può influenzare potenzialmente molti utenti. Occorre quindi essere bravi nell’ascolto e nella successiva interazione con il pubblico guidando i consumatori all’azione, facendo cioè in modo che siano loro stessi ad accendere la miccia attorno al contenuto che desideriamo diffondere. In particolare ho apprezzato molto (e non ho resistito, ho subito citato l’autore – CEO di Likeable Media – su Twitter ricevendo immediata risposta) la considerazione: “social media is not an instant win”. La costruzione di relazioni con/tra utenti trascende il concetto del “media” ed entra in un ambiente dall’alta imprevedibilità che, per uscire vincitori, necessita di pazienza (e quindi tempo), abilità, coraggio e disponibilità.

Il libro, come si può facilmente intuire dalla copertina, si concentra principalmente su Facebook, presentando le possibilità di “ingaggio”, i consigli su come rispondere ai commenti (positivi e negativi che siano), sulle modalità di condivisione dei contenuti, sull’integrazione dell’intera esperienza dei consumatori attraverso i social network e sull’utilizzo di questi come canali attraverso i quali veicolare messaggi pubblicitari (nel testo è tuttavia più ripetuto il consiglio di evitare di pensare alla mera vendita nell’approccio ai social media).

Una lettura davvero consigliatissima, fosse anche solo per la sintesi e l’invito all’azione con i quali terminano i capitoli, leggendo il desiderio di testare quanto raccontato a stento si tiene a bada tanto convincenti risultano essere gli argomenti trattati. Well done Dave!

Citizen Journalism con Instagram? Proviamoci! #igersmilanonews

instatweetawardsSi avvicina il giorno dell’uscita nelle librerie del mio NEWS(paper) REVOLUTION, aspetto con crescente trepidazione il fatidico giorno in cui vedrò la mia prima “fatica in solitaria” sugli scaffali delle librerie che sono solito frequentare. Con un barlume di lucidità nonostante l’entusiasmo alle stelle, per ingannare l’attesa, ho deciso di tentare una sorta di esperimento. In collaborazione con lo staff di IgersMilano (ringrazio sin da ora Orazio e tutto il team) ho pensato di coinvolgere la community di utenti di Instagram chiedendo loro di diventare reporter per un giorno. Come? Semplicissimo. Dal 13 al 20 gennaio prossimi, scattata una foto legata a un avvenimento/fatto di cronaca del quale si è stati testimoni (nulla di complicato, non pretendo scoop!), basterà caricare la foto utilizzando il particolare hashtag scelto per l’occasione – #igersmilanonews – per creare, insieme, un album dal quale verranno poi selezioni tre contributi (i migliori a insindacabile giudizio del “comitato” formato dal sottoscritto e dai rappresentanti di IgersMilano) che saranno premiati, in occasione dell’evento di presentazione del testo, il prossimo 24 gennaio (giorno di uscita ufficiale del saggio), con una copia cartacea con tanto di dedica del libro. L’idea è quella di dimostrare che anche Instagram (come indicato nel terzo capitolo, 3.4 Strumenti a supporto del giornalismo) è un valido strumento per rendere l’informazione più puntuale, multimediale e partecipata. Con la speranza possa risultare gradita e far registrare un’alta partecipazione, non mi resta che fare il mio personale “in bocca al lupo” a tutti coloro che vorranno essere parte integrante dell’iniziativa! Per tutti gli altri, l’appuntamento è, invece, in libreria, grazie.

Instatips, la guida (gratuita) alla fotografia via Instagram

instatipsSono sempre stato un appassionato di fotografia, mi piace gustare belle immagini e mi affascina anche l’idea di riuscire a fermare il mondo attraverso uno scatto. Da fanatico de La Camera Chiara di Roland Barthes più che all’attrezzatura ho sempre puntato alla ricerca del punctum, di quel particolare – assolutamente personale – che rende la foto una sintesi di emozioni. Una delle mie foto che ricordo con maggiore lucidità è ormai sbiadita: stavo visitando lo zoo di Sydney quando, oltre il recinto degli scimpanzé vidi un esemplare maschio, retto sulle due gambe posteriori che con un rudimentale bastone in mano, richiamare l’attenzione delle altre scimmie radunatisi davanti. Purtroppo il riflesso della luce nel vetro di protezione non rese lo scatto memorabile ma quell’immagine riesce ancora oggi commuovermi (e riesce anche a rimandarmi sempre e comunque alle famosa scena di 2001 Odissea nello spazio). Oggi non uso più una macchinetta fotografica ma porto sempre con me il mio smartphone con il quale mi piace raccontare e condividere le esperienze – dirette e meno – che mi vedono testimone. Come? Beh con Instagram (e Twitter, nonostante tutto)! Ecco perché non posso non segnalare una bellissima iniziativa realizzata da Media Word in collaborazione con Instagramers Italia che si è concretizzata in un ebook dal download gratuito che punta ad essere una guida alla fotografia realizzata a partire da contributi e consigli degli stessi utenti.
Dati degli temi-hashtag attorno ai quali sbizzarrire la proprio creatività, sono state scelte alcune immagini più rappresentative. Una delle quali è proprio un mio scatto con filtro (#Instatipsdigitalthings pagina 50). Si è molto parlato di Instagram in questi giorni: per la temuta minaccia della vendita delle immagini degli utenti, per la “guerra” con Twitter, per l’imminente (a quanto pare) avvento della pubblicità nel social network che ruota attorno a tag, foto e filtri. Nonostante gli allarmismi continuo ad rendere quadrati i miei scatti con l’applicazione tentando di correggerne le imperfezioni con i filtri, sperando di poter raccontare con immagini anche il 2013, ancora auguri a tutti!

Se art e copy non bastano più…

Alcuni giorni fa mi è capitato tra le mani un piccolo libricino dal titolo La coppia creativa sono in quattro di Emanuele Nenna, testo che ho letto in una sera tutto d’un fiato. L’assunto alla base del libro attorno al quale l’autore – fondatore, con altri due soci, dell’agenzia Now Available – costruisce la sua analisi, è che oggi il mondo non sia più quello di una decina di anni orsono e che quindi, per rispondere al meglio alle nuove sfide della comunicazione (e, in ultima istanza, agli odierni consumatori) la classica coppia art+copy non sia più sufficiente. Questo non solo comporterebbe un allargamento del team chiamato a rispondere alle esigenze nell’epoca del digitale, ma implicherebbe anche l’individuazione di nuove professionalità, il rinnovamento organizzativo delle agenzie e quello del rapporto tra agenzie e clienti. Se l’obiettivo della pubblicità resta sempre quello di supportare l’azienda nella vendita di prodotti/servizi, infatti, il pensiero creativo si manifesta oggi in maniera notevolmente differente rispetto ai tempi del Bernbach citato nel sottotitolo.

Ciò che è ho più apprezzato del libro è che non pretende di cambiare facendo tabula rasa del passato, ma invece proprio dai fondamentali, prende il lancio per l’innovazione dell’ottica legata alla creazione dei messaggi pubblicitari. Anche per questo motivo ho apprezzato maggiormente la prima parte del testo. La seconda, nella quale in sintesi l’autore presenta “i nuovi creativi”, nonostante i molti esempi citati, forse anche perché il “clima” di agenzia lavorativamente parlando non mi appartiene, non mi è del tutto familiare, mi è sembrata utile ma al contempo forse un po’ distante, quasi una provocazione, un urlo solitario rispetto a una mancanza di professionalità che (causa della costante rincorsa imposta dei nuovi strumenti “virtualmente sociali” e dalle poche certezze che su questi tutti noi del settore abbiamo?) mi pare invece pericolosamente in ascesa.

In ogni caso, consigliatissimo per chi voglia farsi un’idea su una delle possibili declinazioni dell’advertising del futuro, complimenti!

La videochat su Google+ dell’AC Milan #hangoutmassaro

Lo ammetto: tra tutti i miei profili nei social network, lo strumento che uso di meno è Google+. Appena rilasciato ho elemosinato in giro un invito per registrarmi e poi una volta visto il funzionamento, aver tentato di sistemare i miei contatti in cerchie dai nomi stravaganti e aver incollato qualche link per dare maggiore visibilità ai miei post, l’ho abbandonato (ricevendo nonostante la mia inattività molte notifiche su persone che invece mi consideravano nel loro network). Salvo di tanto in tanto tornare scoprendo restyling grafici, la possibilità di utilizzare hashtag e quella di partecipare a video chat. Questa possibilità in particolare ha attirato la mia attenzione si da quando Obama la utilizzò per dialogare con il proprio elettorato. Mai però avevo visto, in Italia, un qualcosa che andasse al di là di un confronto tra “adetti ai lavori”. Alcuni giorni fa ho potuto finalmente assistere a un hangout (questo il nome tecnico) da parte di un brand. Una comunicazione inusuale certo, ma pur sempre legata a un marchio più che a un singolo individuo. Il post lo pubblico oggi, ieri in maniera scaramantica stavo ancora osservando il silenzio stampa (nemmeno questo è servito per far tornare la squadra alla vittoria, sob). Il brand in questione è, infatti, l’AC Milan che ha consentito a tifosi di tutto il mondo (dal Venezuela all’Italia, dall’Inghilterra all’Indonesia) di dialogare con Daniele Massaro, portavoce ufficiale online della squadra su G+ per 30 minuti. Non è stato tutto fluidissimo nella gestione dell’interazione: quella che immagino essere un’addetta stampa aveva preparato un elenco di partecipanti alla conversazione che tramite una sorta di appello venivano chiamati per nome e avevano così modo di porre la loro domanda. Se non ho capito male, molti tra coloro che hanno avuto modo di partecipare via videochat erano in qualche modo associati a siti/fanzine in orbita Milan, quasi fosse una sorta di conferenza stampa pre-gara (tra i “semplici” fan, invece, spiccava il nome di Matteo Tagliariol, schermidore medaglia d’oro alle Olimpidi di Pechino del 2008). Massaro si è dimostrato un istrione in grado di raccontare aneddoti divertenti capaci di divertire ognuno dei protagonisti. Purtroppo il sottoscritto è arrivato tardi all’appuntamento (chissà hanno scelto proprio le 17 come ora di inizio) e si è potuto godere solo la parte finale dell’evento, quanto è bastato però per apprezzare l’opportunità insita nello strumento.
[youtube http://www.youtube.com/watch?v=BvR-fWzmJ94&w=440&h=360]
Ancora una volta il web propone una modalità comunicativa in grado di (quasi) azzerare le distanze tra i vari interlocutori, tutti su uno stesso livello ad alternarsi (leggermente imbarazzati) sullo schermo. Immaginare un testimonial o addirittura un responsabile di prodotto accettare la “sfida” di affrontare il pubblico di consumatori senza filtri, sottoponendosi a curiosità, critiche, delucidazioni risulta utopico? Forse. Ma credo che individuando qualcuno che sappia gestire la comunicazione portandola nei binari a lui/lei più consoni, anche un confronto in videochat su G+ possa essere un’iniziativa dai costi irrisori ma potenzialmente dal buono ritorno. Si tratterebbe di una comunicazione verso una nicchia di consumatori ma resto dell’idea che se il dialogo risulta costruttivo, si crea comunque valore, sia per gli utenti che per il brand. Senza contare l’utilizzo dalla video-chat non tanto sotto l’aspetto meramente comunicativo ma anche come cartina di tornasole per la comprensione del percepito di marca/di prodotto e dei focus sui quali gli utenti concentrano maggiormente lo proprie attenzioni.