Verizon e AOL puntano su mobile e video adv. E i contenuti?

Img: adage.com

Quando alcuni giorni fa si è diffusa la notizia circa l’annuncio da parte di Verizon – colosso statunitense della telefonia – di aver raggiunto l’accordo per l’acquisto di AOL (4,4 miliardi di dollari, 50 dollari ad azione), molti hanno sottolineato come l’operazione sancisse il successo dei “contenuti”. In effetti AOL, nel corso degli anni, ha saputo trasformarsi da provider e gestore di servizi (chi non ricorda C’e posta per te?) in una delle più rilevanti realtà statunitensi del comparto digital media con, nella propria faretra, frecce quali The Huffington Post, TechCrunch e Engadget.
L’impressione però è quella che Verizon non si appresti ad acquistare AOL per le redazioni – seppur di primo piano – quanto per ciò che tiene uniti i diversi spazi informativi, l’Ad Network. Seguendo una strategia differente da quella del “rivale storico” Yahoo – che ha puntato su tecnologie di contenuti quali Yahoo Answers e Tumblr – AOL ha focalizzato i propri sforzi economici nello sviluppo di una piattaforma pubblicitaria in grado di sfruttare, oltre agli spazi di proprietà, anche un network di altri siti (più di 450 publisher) attraverso i quali diffondere i messaggi pubblicitari dei propri inserzionisti.
Inoltre, con l’acquisto nell’estate 2013 di Adap.tv, AOL ha voluto nuovamente imprimere un cambio di velocità all’azienda. Facendo tesoro della propria esperienza nel campo del display advertising, infatti, AOL ha deciso di scommettere sul formato video, evoluzione interattiva e multimediale del banner.
In realtà AOL ha dimostrato un certo interesse per i video non solo sotto il profilo meramente pubblicitario quanto anche dei contenuti di intrattenimento: AOL Originals e Huffington Post Live rappresentano due degli esperimenti con il maggior seguito. Con il primo AOL si cimenta nella vera e propria produzione di contenuti video premium, con il secondo fa concorrenza online ai canali all news televisivi.
In fondo, è lo stesso Tim Armstrong, CEO di AOL che, informando i dipendenti della trattativa con Verizon, ha presentato l’azienda come una “media platform company” che, vinta la sfida del video, punta ora al successo nel mobile. Con percentuali sempre più in crescita di traffico in mobilità (Armstrong indica in 80% la percentuale della media consumption prevista per i prossimi anni), poter contare su un’infrastruttura come quella di Verizon potrebbe consentire a AOL di, diciamo così, chiudere il cerchio imponendosi sul mercato pubblicitario come punto di riferimento.
Non stupisce dunque che, proprio mentre nel quartier generale di New York si brindava alla vendita di AOL, tra i giornalisti dell’azienda iniziasse a serpeggiare qualche timore. Prima di tutto per l’indipendenza verso un colosso che su temi quali la net neutrality e la privacy online non si è dimostrato apertissimo al confronto. E, in secondo luogo, vista la difficoltà di rendere l’industria del giornalismo online scalabile e profittevole, la paura riguarda potenziali cambi nella strategia del neonato gruppo che potrebbero portare a un ridimensionamento proprio dei contenuti. Malgrado questi siano necessari ai video pubblicitari.

BuzzFeed e Dove: non laviamocene le mani

Img: gannett-cdn.com

Circa due mesi fa, in un mio post, analizzai le policy di BuzzFeed. Al di là di quanto stabilito dal vademecum per chi lavora o collabora con la redazione, ho apprezzato soprattutto la volontà di condividere con il proprio pubblico i punti salienti entro i quali si sviluppa il lavoro della testata. Una trasparenza che, a mio avviso, avrebbe potuto avvicinare i lettori rendendoli in qualche modo partecipi del modello editoriale. Tra i punti più rilevanti indicati da BuzzFeed c’è la volontà di non eliminare alcun contributo: nel caso in cui qualche informazione pubblicata non sia corretta o sia diventata obsoleta, l’articolo verrà aggiornato e corretto inserendo delle note a spiegazione delle modifiche effettuate.
Qualcosa però, nelle ultime settimane, non ha funzionato esattamente come previsto dalle policy. In particolare, ha suscitato il mio interesse il “caso Dove” che qui sintetizzo: Arabelle Sicardi scrive un articolo circa una delle ultime iniziative legate alla campagna pubblicitaria Dove. Il brand di Unilever ha infatti realizzato un video che riprende alcune donne che, nei pressi di una stazione, dovendo scegliere tra l’ingresso beautiful e quello average appositamente preparati da Dove, tendenzialmente scelgono il secondo. La finalità del progetto prosegue sulla falsa riga di quanto precedentemente realizzato dal brand che punta, attraverso pubblicità emozionali, a rendere maggiormente consapevoli le donne della loro bellezza (benché questa non segua i canoni dello showbiz). Il post, in realtà, risulta piuttosto duro nei confronti di Dove: viene criticata la scelta di semplificare eccessivamente la realtà suddividendola solo tra due parametri (o sei bella o sei nella media) e, soprattutto, viene imputato al brand di proporre sul mercato prodotti contro la cellulite o per una pelle più bianca con i quali “correggere” le imperfezioni alla faccia del messaggio #choosebeautiful.
Il punto però non è (solo) quello legato alla percezione dell’iniziativa Dove da parte delle consumatrici. L’aspetto interessante della vicenda è il fatto che BuzzFeed decide di cancellare l’articolo – in contrasto alle direttive che invitano gli editor a una scrittura che “presenti” piuttosto che “dica” sulla base di personali valutazioni – venendo meno alle policy che la testata stessa aveva deciso di condividere.
L’articolo è poi reso nuovamente disponibile online e Ben Smith, caporedattore di BuzzFeed, fa ammenda su Twitter pubblicando la lettera da lui inviata a tutto lo staff nella quale si scusa per l’esagerata reazione e sottolinea come l’iniziale scelta di eliminare gli articoli (una situazione analoga a quella del post su Dove pochi giorni prima era emersa con il gioco da tavolo Monopoli) non sia stata dettata dalle pressioni degli inserzionisti (come provocamente ipotizzato da The Gawker). Qualche dubbio infatti può legittimamente nascere. Perché, in fondo, una cifra importante del business di BuzzFeeed proviene dalla realizzazione/diffusione di contenuti sponsorizzati e Unilever, si sa, è tra i marchi che più investino in pubblicità. Secondo quanto comunicato dalla redazione, il marchio di Dove, Axe e molti prodotti, non investe su BuzzFeed dall’ottobre 2013 anche se gli articoli sponsorizzati, frutto della collaborazione tra il brand e la testata, sono ancora online. Al di là del caso specifico, mi chiedo: quanto il native advertising legato alle redazioni finisce con l’influire sullo spirito critico di una testata nei confronti degli inserzionisti?

ps: Arabelle Sicardi, dopo la cancellazione del post, ha rassegnato le dimissioni da BuzzFeed

Toronto Star, quando il paywall non è sinonimo di successo

Img: jpress.journalism.ryerson.ca

Oggetto delle riflessioni condivise nel blog sono spesso grandi testate, gruppi editoriali che possiedono ingenti risorse per finanziare la ricerca di approcci innovativi alla Rete. Quella che mi appresto a sintetizzare è invece una di quelle storie che, pur di secondo piano rispetto ai nomi altisonanti del “quarto potere”, offre indubbiamente spunti interessanti da valutare.

Nell’estate del 2013 il quotidiano più diffuso in Canada, il Toronto Star, a seguito del rinnovamento del design del proprio sito di inizio anno, introduce il paywall.
Consentendo di leggere solo 10 articoli gratis al mese, il giornale della Toronto Corp. punta, con gli abbonamenti, a recuperare i mancati introiti della pubblicità a stampa, di giorno in giorno sempre più in declino. Non si tratta di una “barriera” rigida: restano visibili gratuitamente a tutti gran parte degli articoli della homepage oltre ai video e, per utenti che mensilmente rinnovano, con un pagamento automatico, il proprio abbonamento al cartaceo, risulta un interessante servizio aggiuntivo a spese zero. A livello promozionale, tra l’altro, il primo mese di abbonamento è offerto a 0,99 centesimi, che poi diventano 9,99 dollari ogni trenta giorni.

Per la scena canadese la strada intrapresa dal Toronto Star non è una novità. Il paywall è infatti già stato precedentemente adottato da altri giornali molti diffusi nel Paese quali, ad esempio, il National Post e il Globe and Mail, anche se con differenti tipologie di prezzo e offerta.

Qualcosa però non va secondo i piani e così, a poco più di un anno e mezzo di distanza dal lancio, il Toronto Star torna sui propri passi informando gli utenti che il paywall dal 1° aprile non sarà più attivo e che tutti i contenuti della testata torneranno fruibili gratuitamente anche da tablet e mobile. Non si è trattato di un pesce di aprile – come forse qualcuno inizialmente ha pensato – ma, come recita la nota ai lettori, di un aggiustamento della strategia digitale messo in atto dalla testata per venire incontro alle tante richieste da parte di lettori e inserzionisti.

In realtà la decisione non è avvenuta in modo improvviso: già dallo scorso novembre il gruppo proprietario del giornale canadese, analizzando i dati di bilancio (digital revenue con segno meno) aveva annunciato il cambio di rotta che dal paywall avrebbe poi portato – con nuovi ingenti investimenti – a una rinnovata applicazione per tablet (sviluppata in collaborazione con il giornale di Montreal in lingua francese, La Presse) pensata per incentivare una lettura più interattiva, multimediale e multicanale da parte degli utenti.

Ai pochi (maledetti?) e subito, il giornale ha preferito tornare ad adottare un modello finalizzato ad allargare quanto più possibile il bacino di lettori (strizzando indirettamente l’occhio alla pubblicità), puntando in particolare sui giovani utenti, sicuramente più affini a tablet e social network che a un abbonamento a un giornale.

 

[update: Star Touch, quando il tablet vince sul paywall]

Gigaom e l’integrità del giornalismo online

Img: about.me/gigaom

Tra gli addetti ai lavori – ma anche tra i semplici appassionati di tecnologia – ha fatto un certo scalpore leggere lo striminzito annuncio tramite il quale Gigaom ha ufficialmente informato di aver cessato, in mancanza di denaro per pagare i creditori, la propria attività. Fondato nel 2006 da Om Malik – ex giornalista di Forbes – il blog, raccontando l’ascesa delle società in orbita Silicon Valley, è riuscito nel giro di pochi anni ad accreditarsi nel panorama informativo legato alle nuove tecnologie superando la ragguardevole cifra dei 6,5 milioni di lettori unici al mese.
A inizio 2012, lo spazio, diventato nel frattempo a tutti gli effetti una media company (anche in virtù dei 15 milioni di capitale stanziati da vari investitori), acquisisce dal Guardian News Media, ContentNext, società che controlla alcuni siti tra i quali spicca paidContent, spazio specializzato nell’analisi della sfera digitale legata ai media. Un affare, questo, che consolida la posizione di Gigaom anche nei confronti degli agguerriti siti “rivali” che, con l’acquisto da parte di AOL di TechCrunch e di ReadWriteWeb ad opera di SAY Media, dimostrarono la vitalità del settore informativo legato alle nuove tecnologie.

Gigaom, in realtà, non è (era?) però solo news: è diventata anche un laboratorio di ricerca con un network di oltre 200 analisti indipendenti (Gigaom Research) e una realtà che organizza eventi sui trend emergenti (Gigaom Events) quali, ad esempio, focus sulla cosiddetta “internet delle cose”, la tecnologia cloud o gli aspetti strategici dell’utilizzo dei metadata. Una società, dunque, apparentemente più che valida. Soprattutto alla luce del nuovo finanziamento (8 milioni di dollari) che a inizio 2014 era sembrato certificare la bontà del progetto di Malik (Malik che, in concomitanza con il sopracitato finanziamento, decide però di lasciare il timone della società).

Molti tra gli addetti ai lavori, commentando quanto accaduto, hanno sottolineato come Gigaom fosse, all’interno del comparto informativo, uno spazio che con orgoglio rivendicava l’avversione nei confronti del clickbait, la pratica che consiste nel pubblicare contenuti di dubbia qualità finalizzati esclusivamente a generare click e, quindi, almeno potenzialmente, maggiori entrate pubblicitarie. Focalizzando il lavoro della redazione sull’aspetto più giornalistico (piuttosto che, parole di Malik, “pregare all’altare di pageview e metriche pubblicitarie che non fanno altro che svalutare il tempo e l’attenzione del pubblico di lettori”), la testata ha evitato il ricorso alle forme pubblicitarie più “invasive” nei confronti degli utenti quali il native advertising, gli auto-play video o gli overlay.

Fine di un sogno? O di un modello di giornalismo (quello del free-for-all)?

Il Financial Times e l’economia dell’attenzione

Img: ft.com

Il Financial Times è uno dei quotidiani che ha meglio saputo affrontare la sfida del digitale. Lo testimoniano anche gli ultimi dati diffusi dalla testata che vedono, nel 2014, un incremento dei profitti: +10% annuo nella circolazione del giornale su carta e online, e un +21% negli abbonamenti (il cui 70% è rappresentato da digital subscriptions). Il FT è stato tra i primi a vagliare su web l’approccio basato sul cosiddetto paywall. Semplificando, tale strategia consente a chiunque di leggere 3 articoli gratis al mese, superati i quali, per proseguire nella fruizione del materiale della testata, si richiede la sottoscrizione di un abbonamento. Un metodo che, in un mondo – quello della Rete – nel quale ancora oggi la gratuità del contenuti è assai diffusa, a molti è inizialmente sembrato azzardato ma che, in virtù della qualità dei pezzi del giornale e della sua rilevanza nel panorama economico-finanziario, si è dimostrato di successo (le 720.000 “copie” tra carta e web del 2014, pur non essendo un numero altissimo, rappresentano il record per la testata).
Nonostante i buoni risultati, il FT ha però deciso di modificare la propria strategia. Da marzo, infatti, il paywall è proposto in una versione aggiornata: non più 3 articoli al mese gratis ma, un mese di accesso senza limiti alle risorse del quotidiano alla cifra simbolica di 1 dollaro. Terminato il mese di “prova”, all’utente sarà proposto l’abbonamento annuale che, nella sua versione base, ammonta a 335 dollari. Questo cambio, secondo John Ridding, CEO di FT, dovrebbe portare ad un ulteriore aumento degli abbonamenti che si stima possa essere compreso tra l’11 e il 29%.

Alla base della scelta della testata – per certi versi inaspettata, per l’intero comparto media online, il paywall di FT ha rappresentato una delle poche certezze – vi sono dei cambiamenti nelle proposte che il giornale riserva agli inserzionisti. Se è vero che la maggior parte degli introiti del quotidiano derivano dagli abbonamenti, FT sta tentando di individuare nuove opportunità legate alla pubblicità.
In virtù del fatto che, come spiegato da Jon Slade, responsabile del comparto digital advertising del FT, i lettori online della testata restano nel sito mediamente sei volte di più che in qualsiasi altro spazio di notizie economico-finanziarie, i vertici di FT hanno iniziato a proporre agli inserzionisti una metrica alternativa (o, quantomeno, complementare) a impression e click. Si tratta del cost-per-hour (CPH), quello che potrebbe presto diventare uno dei nuovi standard del mercato pubblicitario online.
Se, come dimostrato da Chartbeat – partner FT nello sviluppo del progetto per la parte di analisi del comportamento degli utenti – più un individuo è esposto a un messaggio pubblicitario, più alta è la sua propensione all’interazione – sia in termini di brand recall (letteralmente, richiamo di marca) che più genericamente di engagement – riuscire a far tesoro del “tempo speso” dai lettori all’interno del sito potrebbe rappresentare per la testata un (nuovo) punto di svolta.
FT sembra quindi aver deciso di puntare sulla cosiddetta economia dell’attenzione. La sfida, tutt’altro che semplice, è quella di riuscire a catturare il lettore facendolo rimanere il più a lungo possibile all’interno dei “confini” del giornale.
Strategia che sembra diametralmente opposta a quella in uso negli spazi che, facendo massiccio ricorso a classifiche e gallerie fotografiche, costruiscono i propri contenuti per una lettura veloce e una rapida condivisione.

Quale modello avrà la meglio?

La policy editoriale di BuzzFeed

Img: @buzzfeed twitter account

BuzzFeed è sicuramente uno degli spazi informativi più originali che, dal 2006 ad oggi, ha saputo sfruttare al meglio le caratteristiche del web creando uno stile proprio, di successo soprattutto tra i giovani. La fascia d’età 18-34 rappresenta, infatti, secondo le cifre pubblicate nel sito, il 50% degli oltre 175 milioni di visitatori unici al mese che BuzzFeed fa registrare. A conferma di ciò, anche i dati di traffico al sito: 50% da mobile (percentuale in salita), 75% del traffico da canali social, cifre che identificano un bacino di lettori solitamente molto difficile da raggiungere (e ancora di più da mantenere) da parte dei media tradizionali.
Numeri decisamente accattivanti per molti inserzionisti che, nel team di BuzzFeed, hanno potuto trovare un valido supporto (oltre che un valido canale di trasmissione) per la creazione di contenuti appositamente pensati per essere condivisi in maniera diffusa. Quiz, infografiche, video e divertenti liste sono solo alcuni degli esempi attraverso i quali una marca, con il supporto dello staff di BuzzFeed, può riuscire ad intercettare il pubblico con i propri messaggi e valori.

Se dalle (sintetiche) informazioni fornite nella sezione advertise del sito appare piuttosto chiaro il risultato finale di una potenziale collaborazione tra un brand/un’agenzia e il reparto di creativi di BuzzFeed, poco o nulla viene riportato circa l’applicazione concreta del processo “produttivo” che ogni giorno crea i contenuti della testata.

Sul finire dello scorso gennaio, però, BuzzFeed ha pubblicato una sorta di “guida” a disposizione di dipendenti, collaboratori e lettori che delinea gli standard del lavoro editoriale della testata.

Con l’obiettivo di unire il meglio di tradizione e innovazione, il documento rappresenta una sorta di riflessione “pubblica” per identificare la strada entro la quale crescere e proseguire lo sviluppo della internet news media company.

Di spunti interessanti ce ne sono molti, ecco quelli a mio giudizio più rilevanti:

1) le informazioni devono provenire da fonti confermate; Wikipedia e altri spazi modificabili da più utenti non possono essere considerati la fonte di una storia;
2) i riferimenti ad altri spazi informativi vanno indicati con citazioni esplicite alla testata e al link dell’articolo;
3) estratti da comunicati stampa vanno segnalati;
4) i giornalisti sono incoraggiati a contattare utenti Twitter e Instagram di cui desiderano utilizzare il materiale, soprattutto in caso di contenuti sensibili;
5) nessun articolo editoriale può essere cancellato; se alcune delle informazioni diventassero obsolete o si dimostrassero non corrette, sarà possibile aggiornare l’articolo inserendo delle note esplicative per i lettori;
6) le fonti non vengono retribuite per le interviste che rilasciano; interviste via email, Facebook messanger o Gchat sono permesse, ma quelle di persona sono spesso molto interessanti;
7) per immagini forti dovrebbe essere utilizzato il tool grafico che consente di coprirle lasciando all’utente la facoltà di scegliere se visualizzare o meno il contenuto;
8) gli articoli devono essere rigorosi, neutrali e devono anteporre fatti e notizie al resto;
9) simpatie politiche e commenti di parte non dovrebbero essere espressi pubblicamente, né attraverso forum o social media quali Twitter e Facebook; in particolare da chi si occupa della sezione News; per i membri dello staff News non sono inoltre permesse donazioni in denaro (ma anche in termini di tempo) per candidati politici o campagne politiche;
10) BuzzFeed conta sulla capacità del proprio team di offrire ai lettori indagini accurate, servizi utili e intrattenimento nella netta separazione tra advertising content e editorial content. Il lavoro di reporter, giornalisti ed editor è completamente indipendente da chi si occupa di vendere gli spazi pubblicitari e da chi li compra; chi si occupa della creatività delle inserzioni risponde al comparto business di BuzzFeed, non alla redazione editoriale; la collaborazione tra diversi staff è incoraggiata ma non nel caso di campagne pubblicitarie in occasione delle quali vige una divisione netta e chiara tra i reparti e le mansioni;
11) gli investitori di BuzzFeed non influenzano il lavoro dello spazio informativo.

Nessuna eclatante rivelazione ne sono consapevole, ma resta comunque importante intravedere i punti di riferimento di una realtà nata come fucina di contenuti “virali” che via via ha visto crescere le proprie ambizioni informative.

La sfida di contribuire a creare nuovi modelli per il giornalismo – ciò che pare aver “conquistato” Ben Smith, ex Politico.com e dal 2011 editor-in-chief di BuzzFeed – resta ancora da vincere.

Il native advertising sbarca anche su Flipboard

Img: vator.tv

Non sono un utilizzatore così assiduo di Flipboard ma quando trovo il tempo di usare il tablet, l’applicazione è una di quelle che non lesino ad interrogare per approfondire le notizie sulle tematiche che più mi interessano. Mi sono anche divertito a creare una mia rivista che funge da “contenitore” virtuale degli spunti su comunicazione, giornalismo e web che reputo più rilevanti.
Trovo molto piacevole la lettura di articoli con il look & feel del digital magazine che Flipboard consente a chiunque di sfogliare, non mi stupisce che autorevoli quotidiani come il New York Times, il Financial Times e, ultimo in ordine di tempo, il Wall Street Journal, abbiano deciso di intraprendere una collaborazione con l’applicazione (tra l’altro, il WSJ vende anche spazi pubblicitari su Flipboard testando nuovi modelli di advertising indirizzati in particolare a utenti che non sono soliti utilizzare sito e app del giornale per informarsi). Così come non mi è sembrato strano che “la rivista sociale e personalizzata” intraprendesse la strada già imboccata da altre redazioni digitali: quella dei Promoted Items. Infatti, dal prossimo primo febbraio i brand potranno mettere in evidenza i loro contenuti nel tentativo di raggiungere un pubblico più vasto e/o di suggerire agli utenti un’azione quale l’iscrizione a una newsletter, la visita a un sito o il follow di una particolare rivista.
I due brand che, come recita il comunicato stampa ufficiale, per primi testeranno i Promoted Items sono Levi’s e NARS Cosmetics. Il cosiddetto native advertising, quindi, si applica anche a quello che in definitiva è un aggregatore di notizie: contenuti “sponsorizzati” – in maniera del tutto analoga a ciò che accade, per esempio, su Twitter – entreranno a far parte del flusso di notizie di Flipboard in un continuum che non prevede una distinzione netta tra spazi informativi e spazi pubblicitari. Certo, avranno l’etichetta “promoted”, ma a tutti gli effetti saranno fruibili tra le altre notizie di un determinato canale tematico senza essere relegate, come ad esempio capita nei giornali su carta nostrani, nell’apposita rubrica dei redazionali.

Questa nuova opportunità segue quella dello scorso settembre con la quale Flipboard, per la prima volta, ha proposto ai propri lettori video ads a tutto schermo di 10 brand selezionati (da Gucci a Sony Pictures, da Chrysler a Jack Daniel’s).

Gli investimenti stanziati grossomodo un anno fa per acquistare l’allora competitor Zite devono in qualche modo essere ripianati. Nulla da eccepire, quindi, sul fatto che Flipboard stia tentando – anche in maniera piuttosto aggressiva – di monetizzare al meglio i circa 100 milioni di profili “attivati” dichiarati (espressione piuttosto fumosa che non coincide di certo con “attivi”).

Resta da capire quale sarà la reazione del pubblico a questa “invasione” di pubblicità in un terreno, quello dei contenuti organizzati dall’applicazione, sino a non molto tempo fa apprezzato proprio per la mancanza delle inserzioni tipiche della stampa.

Gli utenti rappresentano al contempo il patrimonio e l’opportunità di Flipboard. Sono probabilmente loro, più che gli inserzionisti, coloro sui quali l’attenzione non dovrebbe mai smettere di concentrarsi.

 

p.s. = ho aggiunto anche l’iconcina di Flipboard ai pulsanti di condivisione dei post del blog

Snapchat, la nuova frontiera della comunicazione?

Img: socialtimes.com

Tra le applicazioni più in voga nell’ultimo periodo c’è sicuramente Snapchat, la social app tramite la quale scambiare foto, video e messaggi a visibilità limitata. L’utente, prima di condividere i propri contenuti ha infatti la possibilità di scegliere la durata della visualizzazione (per quel che concerne i messaggi, una volta letti non saranno più visibili dal mittente né dal destinatario). Questa peculiarità rende molto particolare l’utilizzo dell’applicazione che quindi non può essere considerata come una semplice replica dei vari strumenti di messaggistica istantanea quali Whatsapp, Skebby, Viber o Facebook Messenger (tra l’altro Snapchat in collaborazione con Square ha da poco lanciato Snapcash, un sistema che consente di trasferire denaro da un conto a un altro semplicemente digitando la cifra e schiacciando l’apposita icona “verde dollaro”). L’aspetto “evanescente” della comunicazione via Snapchat influisce sul tipo di contenti veicolati tramite la app? Difficile negarlo. Ma non è questo l’aspetto che mi ha più incuriosito.
Il numero di utenti registrati a Snapchat è in continua crescita, soprattutto tra i più giovani. Facile intuire come l’applicazione sia diventata molto interessante per gli inserzionisti. Non è quindi un caso che, per gli utenti americani, a partire dalla seconda metà di ottobre, abbiano iniziato ad apparire nella sezione “Recent Updates” dei messaggi pubblicitari (che spariscono appena visti o, nel caso vengano ignorato, nel giro di 24 ore).
Ciò che non mi aspettavo è che anche realtà quali Buzzfeed, CNN, Time Inc. e Hearts, si avvicinassero all’applicazione come potenziali fornitori di contenuti. Nonostante la sezione “Our Story” in occasione di eventi pubblici come manifestazioni sportive o concerti susciti una notevole partecipazione da parte degli utenti, mi ha sorpreso il fatto che i media siano passati così velocemente dal parlare di al parlare con Snapchat, riconoscendo quindi nell’applicazione non solo un fenomeno della rete ma un potenziale partner.
Secondo alcune indiscrezioni, infatti, l’applicazione dovrebbe a breve lanciare “Discover”, una nuova sezione nella quale troverebbe spazio il materiale di player autorevoli del settore informativo e di quello entertainment (come Vevo e Comedy Central), attirati da un pubblico giovane che, proprio in virtù dell’essenza “a tempo” dei messaggi, risulta anche molto attivo e decisamente propenso a utilizzare la app più volte al giorno.
A riprova del fatto che Snapchat punta anche sul comparto media per generare profitti basta ricordare l’ingresso nel proprio team di Ellis Hamburger, che da alcuni giorni ha lasciato gli uffici di The Verge, uno degli spazi informativi in ascesa.

Sono davvero curioso di scoprire nei prossimi mesi gli sviluppi della potenziale collaborazione tra due mondi – quello della comunicazione istantanea e quello dell’informazione – apparentemente così distanti e di capire se e come le news si adegueranno a Snapchat.

Innovare significa anche saper osare, no?

[update: con gli aggiornamenti della app di fine gennaio 2015, Discover – “un modo divertente di esplorare gli Snap provenienti da prospettive editoriali diverse” – è stato ufficialmente reso disponibile a tutti gli utenti]

Google ed editori: c’eravamo tanto amati

Img: presstv.ir

La sfida tra editori e Google ha segnato nei giorni scorsi un nuovo avvenimento degno di nota: il gigante editoriale tedesco Alex Springer ha abbandonato, dopo solo due settimane di test, il blocco che limitava l’accesso ad alcune delle proprie pubblicazioni al motore di ricerca offrendo una free license per l’utilizzo dei contenuti di 4 siti del gruppo (welt.de, computerbild.de, sportbild.de e autobild.de).

L’irritazione degli editori (in Germania ma anche in Spagna, Francia e Italia solo per citare alcuni dei Paesi nei quali il problema ha dato adito ai dibattiti più accesi) è dovuta al fatto che l’azienda di Mountain View non si limita a riportare, nei risultati di una ricerca, i soli link agli articoli dei giornali ma presenta anche degli estratti dei contenuti. Secondo i detrattori, Google sfrutterebbe il materiale delle redazioni senza pagare alcunché alle testate ma anzi, guadagnando, anche grazie ad esso, in virtù degli annunci sponsorizzati del proprio circuito.
Gli editori, in alcuni stati, hanno perciò iniziato a riunirsi in consorzi (es. VG Media con oltre 200 editori tedeschi) chiedendo a gran voce che i propri rappresentanti politici si adoperino per tutelare il copyright dei loro contributi e per imporre a Google e altri aggregatori il pagamento di una fee (sintetizzata in Google Tax) per rendere pubblica la preview dei contenuti delle varie testate.

E’ interessante notare come la decisione di Springer che, sulla base del calo di traffico – sceso del 40% dal motore di ricerca e dell’80% da Google News – ha deciso di tornare ad adottare una posizione meno intransigente, susciti riflessioni opposte nei due schieramenti “in campo” (o forse, per meglio dire, “in rete”).
Se Mathias Doepfner, Chief Executive di Springer, sottolinea come quanto accaduto sia la prova più lampante della posizione dominante di Google nel mercato del search e quando sia stata discriminante la scelta del gruppo editoriale di provare a limitare il motore di ricerca (alcuni hanno notato come la marcia indietro del gruppo sia stata pressoché contemporanea all’annuncio dei dati che mostrano un utile ancora in discesa per il gruppo editoriale a causa, soprattutto, di incassi minori dalla pubblicità a stampa), dalla sede Google in Germania si fa notare come i numeri emersi dalla vicenda dimostrino quanto l’azienda californiana sia importante per il contributo fornito all’economia dell’informazione online.

Se è vero che Google guadagna dalla pubblicità veicolata attraverso l’indicizzazione di contenuti non propri nella SERP (il ragionamento che vale per le testate risulta valido, su scala minore, anche per i blog) è altrettanto vero che è proprio grazie al motore di ricerca o all’aggregatore di notizie Google News che i contenuti possono essere trovati dagli utenti, sempre più inclini a interrogare la Rete piuttosto che a visitare le homepage delle varie testate.

La questione, seppur delicata, sembra però una sorta di diversivo rispetto a una problematica ben più complessa: Google per il mondo dell’editoria pare essere più un’opportunità che una minaccia, ciò che continua a mancare è un modello (valido) di business che consenta alle testate di finanziarsi a prescindere dagli strumenti che gli utenti usano per trovare i contenuti informativi.

Un po’ come guardare il dito di chi indica il cielo.

Web Marketing: questione di metodo, il mio nuovo ebook

E’ da ieri disponibile nelle librerie digitali Web Marketing: questione di metodo, il mio ebook pubblicato da 40k per la collana Bees.

Fugo subito ogni dubbio: non si tratta della “guida definitiva al successo in Rete”, non offre ricette per ammaliare gli utenti né è un manuale di kotleriana memoria che esamina a fondo i principi del marketing reinterpretandoli alla luce della complessità di web e social media.

Molto più semplicemente, l’ebook è una riflessione sulla mia esperienza nella promozione online, con pochissimo budget e molte idee. Mi verrebbe da dire una “riflessione a voce alta” perché poi, come già scritto, tutto è nato da un invito ricevuto in occasione di un evento di formazione che mi ha dato modo di riflettere sui punti salienti della strategia da me adottata. Prepando le slide ho in qualche modo tirato le fila della mia “campagna” online accorgendomi che, nel dare il titolo alle diverse fasi del processo seguito per il lancio su web del libro, ero riuscito – in maniera quasi inconsapevole – ad identificare un approccio alla promozione online. Non sono tanto le singole scelte ad essere interessanti, ma piuttosto le modalità con le quali ho affrontato la sfida di far conoscere a quante più persone possibili il mio saggio.
Le parole di sintesi, sistemate in ordine “di apparizione”, sono diventate un mesostico (una variante del più noto acrostico) che ha portato in primo piano la parola CAPIRE.

mesostico

La lista di parole tentava quindi di dirmi qualcosa, mi invitava a “capire”, a scoprire il nesso tra le diverse fasi.

Ci ho riflettuto un po’ e alla fine sono arrivato alla conclusione che ciò che credevo un approccio poteva essere assunto a metodo: un procedimento messo in opera in vista di uno scopo. Quello di promuovere “qualcosa” – un libro, un prodotto, un’iniziativa – su web.

Arrivato a questo risultato, forte dell’entusiasmo generato dal racconto della mia “storia” in alcune occasioni pubbliche, mi sono convinto che le conclusioni alle quali ero giunto dovevano essere condivise in maniera più diffusa. E così, di getto, ho iniziato a riversare su carta le mie osservazioni che, in versione riveduta e corretta, hanno portato all’ebook.

Buona lettura!

p.s.= ho già provveduto ad inserire l’ebook anche su aNobii e su Goodreads